20 agosto 2013, Ascoli Piceno
Oggi ho letto su la Repubblica un’intervista a Krist Novoselic, l’ex-bassista spilungone dei Nirvana, sulla riedizione nel settembre prossimo di In Utero, in occasione del ventennale della pubblicazione. Il cd di In Utero lo comprai alla Fiera del Levante in quel settembre 1993, appena uscito (e per me rimarrà sempre legato al ricordo de Il rosso e il nero, che stavo leggendo in quel periodo: le pagine di Stendhal hanno per colonna sonora quelle canzoni).
Nevermind, invece, l’avevo acquistato in cassetta l’anno prima, a 13 anni, per posta (uno di quegli antenati amatoriali di Amazon): una cassetta che mi cambiò la vita, come si dice. Avevo ascoltato per la prima volta quella strana musica qualche mese prima, durante una cena con gli amici in un garage (un ambiente così lontano, eppure così stranamente consono al contesto che aveva prodotto quei suoni…) su un mangianastri scassato, e ricordo distintamente che non mi era piaciuta affatto.
Quell’estate, invece, non riuscivo più a farne a meno: “Insieme a [Kurt] cercammo di parlare la stessa lingua di una generazione. Non ci rendemmo conto del peso che le nostre canzoni avevano fin quando non cominciammo a confrontarci con il pubblico; un’infinità di ragazzi veniva a raccontarci quanto e quale importanza avessero quelle canzoni sulla loro giornata, sulle loro vite e persino sulle loro estati. Era come se il grunge avesse spazzato via l’idea delle vacanze a base di tormentoni” (G. Videtti, Ecco “In Utero”: il nostro omaggio a Kurt, “la Repubblica”, 20 agosto 2013). Il grunge ha dato un’impronta psichica e culturale a me e a gran parte di coloro che hanno la mia età: ci ha insegnato la ribellione, e come trasformare il disagio nel tema centrale della propria attività.
Questo erano gli Anni Novanta per me; e questo era Kurt Cobain.
Kurt Cobain si è ritrovato intrappolato all’interno di un mastodontico dispositivo, che ha contribuito egli stesso a erigere. Inseguendo il sogno di fondere “la musica dei Beatles e quella dei Black Sabbath”, è piombato dritto al centro dell’incubo americano senza probabilmente avere l’equipaggiamento giusto (e senza neanche sapere che sarebbe accaduto). Spingere negli Stati Uniti reaganiani sul pedale della disperazione e della frustrazione, dare una forma compiuta a questa disperazione e a questa frustrazione, essere parte integrante di un movimento e di una comunità culturale che si costruisce faticosamente e felicemente nell’infelicità, e constatare poi a distanza di pochissimo tempo (trascorso, presumibilmente, alla velocità della luce) che proprio la forza che ti ha spinto in alto è la stessa che ha devastato tutto, inaridendo le fonti e trasformando l’intero scenario in una parodia grottesca di ciò che fu.
Dall’opporsi al sistema al diventare improvvisamente questo sistema, o quantomeno la funzione fondamentale di un sistema che si sostituisce al precedente senza modificarne minimamente i presupposti. Contemplare tutto questo da una distanza siderale, rinchiuso in uno “spazio mentale” (Michael Stipe dixit) ermetico, impermeabile ad ogni stimolo. Il dubbio atroce di aver combinato un casino irrimediabile attraverso la creazione di un’opera meravigliosa, e di non aver avuto altra scelta.
Kurt Cobain espia colpe sue ma soprattutto di altri: il successo modifica radicalmente ed irreversibilmente la percezione degli eventi e della realtà (l’espressione “dare alla testa” forse indica qualcosa di molto diverso, e di più misterioso, rispetto a ciò che intendiamo generalmente; e come diceva John Lennon, “the more real you become, the more unreal it all becomes”: ma non aveva spiegato per bene tutte le conseguenze disastrose che un processo del genere può avere, e quasi sempre ha, su una psiche e su un’identità umane).
L’avidità degli altri non ha nulla ha che fare con la volontà, anche infantile, di dimostrare che si è capaci, con l’ambizione magari distorta – ma ne accresce il potenziale distruttivo.
Christian Caliandro
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