La scoperta del cinema espanso
Un anno fa sull’inserto culturale de “Il Sole 24 ore” Angela Vettese, a proposito di non ricordo quale mostra, ci mise a conoscenza di aver scoperto il “cinema espanso”. Era la scoperta dell’acqua calda, naturalmente. Questo termine, infatti, fu coniato da Gene Youngblood nel lontano 1970 nel suo omonimo libro che ha fatto storia. Un minisaggio di Bruno Di Marino per Artribune.
Quasi quarantacinque anni dopo le teorizzazioni di Gene Youngblood intorno alle immagini in movimento che, abbandonata la rigida cornice dello schermo, si appropriavano dello spazio circostante, diventando pura esperienza cinetica, abbiamo finalmente avuto il piacere di vedere installati nella biennale veneziana di Gioni (e pochi giorni fa al Planetario di Milano) i film di Stan VanDerBeek, sperimentatore americano che dell’expanded cinema è stato, se non il creatore, sicuramente uno dei suoi più autorevoli sacerdoti, grazie al Movie Drome, tempio laico (edificato a metà degli Anni Sessanta) provvisto di cupola semisferica su cui decine di film e slide venivano proiettate simultaneamente, trasportando gli spettatori, comodamente distesi su cuscini e materassi, in una realtà psichedelica e spettacolare.
Gli affreschi cinetici di VanDerBeek, chiamati significativamente Newsreels of Dreams, ovvero cinegiornali onirici, avevano la funzione di stimolare l’inconscio: “Questo flusso di immagini potrebbe essere comparato alla forma del collage con carta di giornale o al circo a tre piste […] Ciascuno spettatore costruirà i propri riferimenti partendo dal flusso di immagini, nel senso migliore del termine, il materiale visivo deve essere presentato e ciascun individuo deve ricavarne le proprie conclusioni…o creazioni», spiegava l’autore.
VanDerBeek – autore da tempo analizzato da noi esperti di nuovi media e di sperimentazione audiovisiva – aveva studiato pittura, architettura e design, iniziando nei primi Anni Cinquanta a realizzare film d’animazione con la tecnica del découpage, proseguendo poi negli Anni Settanta con opere realizzate al computer e approdando infine, negli Anni Ottanta, a un tipo di astrazione elettronica. La sua ricerca ha insomma mescolato tecniche, media e l’idea di una scomposizione caleidoscpica della realtà, che trovava nella frantumazione e nell’esplosione del dispositivo il suo punto di maggiore espressione. Una realtà che ha anticipato la cultura ipertestuale, la non linearità digitale, il post e perfino il neurocinema: un immaginario in cui processi mentali e strutture filmiche sembrano sovrapporsi e/o scorrere in parallelo.
Il cinema espanso o il cinema esposto, le installazioni video o gli ambienti interattivi, e tutti quei dispositivi ai quali siamo ormai avvezzi, è il punto di arrivo di una ricerca che possiamo tranquillamente far risalire alla stagione delle avanguardie. Già nel Manifesto tecnico della pittura del 1912 i futuristi hanno usato una frase che anticipava questa estetica immersiva: “Porremo lo spettatore al centro del quadro”. Del resto, così come la pittura era fuoriuscita dalla tela in quanto spazio di pura rappresentazione, trasformando essa stessa in oggetto/soggetto dell’opera, il cinema – grazie all’apporto degli artisti – si affrancherà dalla rigida gabbia rettangolare dello schermo per diventare “pluricanale”, usando un termine nato nell’era della cosiddetta videoarte.
Già nel 1925 Moholy-Nagy proponeva una superficie semisferica su cui proiettare simultaneamente due o tre film. Intanto dal 1924 la proiezione cinematografica interferisce con la scena teatrale: Francis Picabia progetta insieme a René Clair il film Entr’acte per il balletto svedese Rêlache, concependo inoltre un apparato illuminotecnico imponente, costituito da 360 proiettori che, all’inizio del secondo atto, aggredivano gli spettatori. Nel 1927 due autori molto diversi tra loro come Oskar Fischinger e Abel Gance avevano concepito film da proiettare su tre schermi: il primo realizza l’esperimento astratto R1 Formspiel, mentre Gance il più famoso biopic Napoleon. Le sequenze tripartite sono limitate all’ultima parte, dove viene messa in scena la campagna italiana di Bonaparte, eppure Gance ha un’intuizione che va al di là del semplice cinemascope ante litteram e inventa di fatto la cine-videoinstallazione, grazie a una serie di combinazioni: i tre schermi ricombinano un’unica veduta; oppure i due schermi laterali ripropongono la stessa immagine ma specularmente, formando uno il pendant dell’altro, mentre lo schermo centrale presenta un’inquadratura diversa; oppure ancora, i tre schermi ci mostrano tre inquadrature differenti.
Naturalmente, ritornando al periodo delle neoavanguardie, non è solo VanDerBeek quello che ha innovato e reinventato l’expanded; potremmo citare i Vortex Concerts realizzati da Henry Jacobs e Jordan Belson (altro artista visionario che andrebbe ri-scoperto) tra il 1957 e il 1960 al Morrison Planetarium di San Francisco, con 36 altoparlanti disposti circolarmente che trasmettono musica elettronica, mentre sulla cupola vengono proiettate immagini filmiche. Oppure l’Exploding Plastic Inevitable, show multimediale di Warhol e Velvet Underground allestito tra gli Usa e il Canada, basato su multiproiezioni di film, diapositive, luci stroboscopiche e altri particolari effetti, oltre naturalmente alle performance sul palco di vari personaggi della Factory.
La lista dei cineasti sperimentali che andrebbero finalmente riconosciuti dal sistema dell’arte – sempre diffidente verso chi non ha il pedigree dell’artista doc – è lunghissima. Alcuni anni fa è stato sdoganato Mekas, oggi è toccato a VanDerBeek (riproposto anche dalla Fondazione Trussardi), domani – ci auguriamo – sarà il turno di altri importanti sperimentatori statunitensi: da Paul Sharits (anche membro di Fluxus) a Ernie Gehr, da John Whiteny (il primo a realizzare un film al computer) a Pat O’Neill.
Bruno Di Marino
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