La Sputacchiera #1. Grandi bellezze, Macro-rammarici e Maxxi-invettive
Con un happening di protesta, il performer Iginio De Luca ha cercato di attirare l’attenzione dei media sulla difficile situazione che sta vivendo il Museo Macro di Roma. Partendo da questo caso, la Sputacchiera non ha potuto trattenersi dal dire la sua a proposito della genesi e della gestione dei musei d’arte contemporanea capitolini, Maxxi su tutti.
Più d’una serata romana del marzo appena trascorso ha fatto da palcoscenico al performer Iginio De Luca, lo stesso che, a gennaio di un anno fa, omaggiò l’allora sindaco Gianni Alemanno di un gigantesco e vagamente oldenburghiano panino co’ la mortazza, messo in bella mostra in piazza del Campidoglio, sotto il guardo austero di Marco Aurelio e del suo nerboruto ronzino. Questa volta De Luca ha usato quasi la stessa premura nei confronti di Angelino Alfano, evidentemente affamato tanto quanto l’era l’ex primo cittadino, se l’artista formiano ha pensato, nel suo ultimo adbusting, di fargli impugnare forchetta e coltello.
Ma non è, certo, l’intervento che ha fatto più discutere: lo scorso 14 marzo, infatti, De Luca ha eletto le facciate delle due sedi del Macro quali schermi su cui proiettare le immagini di alcuni neonati colti nei loro graziosi spasmetti e vagiti. Non s’è fatto mistero della natura polemica dell’happening, col quale si è voluto platealmente richiamare l’attenzione dei media sulle disperate condizioni in cui versa il museo romano, “orfano” – da cui il riferimento ai pargoletti urlanti – di un direttore e a rischio chiusura. Nihil sub sole novum, la storia del Macro è di quelle già viste, già sentite, tante, troppe volte nel corso dell’ultimo lustro. Di commissariamenti e minacce di chiusura, ripicche di palazzo e capricci da primedonne, di emendamenti e decreti, la storia recentissima dell’arte contemporanea all’italiana pare gravida e insaziabile, e questo non è che l’ultimo di una sfilza di casi, che va dal Castello di Rivoli al Madre di Napoli, da Palazzo Riso a Palermo all’altro polo museale contemporaneo romano, il Maxxi.
Per le ambizioni con cui è nato e per il clamore mediatico creatosi attorno alla sua inaugurazione quattro anni fa, le alterne fortune di quest’ultimo hanno costretto in un lungo stato di suspense l’Italia della cultura. Non si può dire abbiano sortito lo stesso effetto sulla Sputacchiera. Difatti, fingendomi per un istante le vicende del Maxxi quale soggetto di un ipotetico film, non mi viene certo in mente un thriller: potrei, d’altronde, pensare alla presidentessa mega-galattica Giovanna Melandri come all’eroina di un film d’azione? Al massimo a una delle annoiate frequentatrici dei festini di Jep Gambardella.
Peccato, dunque, che nella Roma artificiale e fittizia – ma tanto efficace nel raccontare l’Italia cafonal-berlusconiana! – del nostro Sorrentino neolaureato agli Oscar, quest’ultimo tracci, dell’arte contemporanea, un ritratto tanto azzeccato quanto, però, generico. Non sarebbe stato molto più seducente, per esempio, se l’avvilente performance di Talia Concept – una Marina Abramović nostrana con tanto di falce e martello impressi sulla pucchiacchiera – si fosse conclusa con una craniata contro uno dei pilotis di Zaha Hadid invece che sugli innocenti tufi dell’Acquedotto Claudio?
Sin dapprincipio il Maxxi si è rivelato un Moloch dai destini permanentemente incerti, divoratore di quantità spropositate di denaro pubblico, monumento nazionale all’arte dello sperpero e dell’approssimazione, discipline in cui, più che nella pittura e nel cinema, nelle lettere e nella scultura, gli italiani primeggiano. Ci si domanderà, forse, i motivi di tanta malevolenza. Svetta, su tutti, il prurito che porta a desiderare, a fronte di costi insostenibili, un super-contenitore prima ancora di avere un contenuto. Si legga: dare la precedenza alla matita pacchiana e salatissima dell’architetta anglo-irachena rispetto allo studio di una collezione dignitosa e di una programmazione artistica innovativa.
Il Maxxi nasceva sotto questa stella infausta e, ciononostante, con l’ambizione di essere la risposta italiana alla Tate Modern e al Centre Pompidou. Peccato nessuno sentisse, allora, il bisogno di domandarsi come fossero nate le due istituzioni impropriamente prese a riferimento – costola della Tate Gallery, quindi della National, la londinese; antico parto della mente di André Malraux la parigina – giacché nel 1998 la pallida lampadina del Maxxi s’accendeva dal niente, per volere dell’allora Ministro per i Beni e le Attività Culturali Walter Veltroni che, senza offesa, non è Malraux.
Altra natura avrebbero dovuto avere, dunque, le condizioni primigenie per mettere su un museo d’arte contemporanea che funzionasse: non certo un acronimo per nome o la firma di un archistar, scimmiottamento modaiolo della lezione newyorchese, del MoMA da un lato e di Frank Lloyd Wright dall’altro. E a poco valgono, quando il danno è a monte, i blandi tentativi di rimediarvi a valle.
Eppure, ai miei occhi avidi di apocalissi, una raison d’être il Maxxi sembra averla. La sua stessa esistenza, se non altro, legittima i deliziosi flussi di atrabile e inchiostro con cui, dagli Anni Ottanta a oggi, un intellettuale reazionario come Jean Clair insiste nel raccontare questa proliferazione neoplastica dei centri d’arte contemporanea in Europa. “Abattoirs culturels” (“mattatoi culturali”): mai locuzione fu più felice! In fin dei conti, può dirsi altro se non una mattanza l’aver speso 150 milioni di euro per realizzare un progetto già vecchio (lo studio è del 1999 e l’inaugurazione del 2010) e, invero, assai poco adatto a ospitare un museo? È, forse, anche una delle ragioni per cui oggi agonizzano iniziative più anziane e assai meno pretenziose come il Macro, costato appena venti milioni.
Tuttavia, valicando per qualche istante i confini del nostro naso e della nostra monomania per installazioni, performance, opening all’insegna di bollicine e paillette, potremmo addirittura trovarci preda di straordinarie epifanie e chiederci: uno Stato che non è in grado di pagarsi da sé la ristrutturazione del Colosseo e di evitare che Pompei venga nuovamente sepolta – stavolta dalla lava dell’inettitudine politica – può forse permettersi di mantenere due musei d’arte contemporanea nella stessa città? Può mantenerne più di quattro, cinque, in tutto il Paese? E ancora: Antonio Natali, direttore degli Uffizi, campa con 1.800 euro mensili, stipendio oscenamente basso per il ruolo che questi ricopre, se si considera che al direttore del Louvre ne spettano circa 400mila l’anno. Il neodirettore del Maxxi, il cinese Hou Hanru, gode invece di un salario di 150mila euro annui. Di per sé, e confrontata con quella dei suoi colleghi europei, non è una cifra astronomica. Ma è fin troppo evidente il disegno perverso, il non-sense di un sistema che investe nel direttore del Maxxi, istituzione ad oggi priva di qualsivoglia autorità, tre volte quello che dà al direttore di uno dei musei più importanti, più studiati e visitati al mondo.
Per mettere una toppa a questo cataclisma che è la cultura in Italia, la Sputacchiera di oggi vuole finire lanciando una sua proposta, ed è la seguente: vendiamo il Maxxi a qualche multinazionale straniera, tipo Zara o Ikea. A un magnate russo o a uno sceicco che lo tramuti in un avveniristico hotel come se ne vedono a Dubai. Oppure, se proprio non ce la facciamo a rinunciare alle bollicine versate in nome dell’arte, diamolo a Charles Saatchi o a François Pinault. Qualsiasi soluzione, pur di riottenere i 150 milioni vanificatisi nell’esorbitante cachet di Zaha Hadid! In questo modo potremmo fare del Macro un museo d’arte contemporanea pieno di contenuti, ricompensare degnamente il direttore degli Uffizi, salvare Pompei e, forse, altri tesori che languono e crollano sotto il peso delle cafonate e dell’incuria.
Vittorio Parisi
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