Narrazioni interdette: alternate take
Siamo sempre alle prese con narrazioni vecchie, immobili, indiscutibili e ormai inservibili. Storie e visioni che imprigionano e impediscono di guardare avanti, innovare, ripensare il presente e il futuro. Christian Caliandro e la sua riflessione sulle “narrazioni interdette”. E la rubrica Inpratica si sposta da domenica a lunedì.

Il sequestro è la cifra e la figura-chiave di questo Paese. Le nostre vite professionali, affettive, cognitive sono sequestrate da narrazioni elaborate prima che noi nascessimo o durante la nostra infanzia, e che abbiamo cominciato a fruire come praticamente immutabili mentre facevamo il nostro ingresso nell’età adulta. Narrazioni storiche, sociali ed economiche edificate da un paio di generazioni a uso e consumo di tutte le altre, precedenti e successive.
Narrazioni per lungo tempo, e in larghissima parte anche oggi, indiscutibili, inattaccabili. Narrazioni che imprigionano, oltre a noi, anche i loro stessi autori e costruttori. La distopia realizzata che è divenuta progressivamente l’Italia dell’ultimo ventennio è un luogo concentrazionario che rinchiude e blocca non solo le vittime, ma anche gli stessi carcerieri. Come in una Robben Island della psiche nazionale e dell’immaginario collettivo, ad aver bisogno di essere liberati non siamo solo noi e quelli più giovani di noi (gli “sfigati” o, seguendo la terminologia rancorosa coniata di recente da Michele Serra, gli “sdraiati”), ma anche e forse soprattutto loro, i responsabili, i privilegiati e in definitiva le vittime ultime di questa situazione insostenibile.
Un’incomunicabilità fondamentale divide tra le nostre generazioni e le loro: non c’è nessun linguaggio, codice, sistema morale in comune. Sono talmente calati nel racconto autoconsolatorio e autocelebrativo che si sono creati da rifiutare categoricamente la realtà esistente, quella prodotta socialmente e storicamente, da qualunque altro punto di vista.
Il privilegio, la percezione di “stare-bene-così”, impedisce e impedirà nel prossimo futuro alla maggior parte di loro di considerare l’enorme ingiustizia esistenziale che essi stessi hanno contribuito a produrre, grazie alla quale (come premessa sorda) hanno potuto vivere finora nelle modalità che credono dovute a loro, e di pensare anche che l’intero processo sia in corso e contenga dentro di sé un germe evolutivo. Sono rimasti, in fondo, quelli che erano a vent’anni. Così come li descriveva, per esempio, nel 1980 Alberto Arbasino: “Questa (…) sembra la prima generazione che contemporaneamente lotta per rovesciare lo Stato, e per ottenere posti fissi e stipendi perpetui dallo Stato medesimo: come per recuperare quella situazione di inamovibilità contro la quale si facevano le rivoluzioni vere, quelle per conquistare le libertà personali senza condizioni” (Un Paese senza, Garzanti, Milano 1980, p. 124).

Carlo Carrà, Il figlio del costruttore, 1917-21
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati