Roma e Parigi, gemelle diverse
Torna alla ribalta l’ipotesi di un gemellaggio fra le Capitali francese e italiana. E la moda potrebbe essere un trait d’union formidabile. Se solo Roma riuscisse a valorizzare le proprie potenzialità, in particolare elaborando progetti espositivi degni di tal nome.
Parigi è la città della Moda con la M maiuscola, quella che incute soggezione e non consente troppe variazioni, anche sperimentali, sul tema. È la città dove per sfilare serve il rispetto di regole precise, dove la solidità di un marchio deve dimostrare una struttura portante, fatta di numeri di impiegati oltre che di storia del marchio stesso. Non basta la forza economica per pagarsi una sfilata spettacolare, bisogna saper realizzare abiti degni di essere definiti “di alta moda”: asole, rifiniture e ricami fatti a mano sono imprescindibili.
Roma è rientrata in campo da qualche anno grazie allo spazio dato ai giovani talenti; quelli che poi, magari, arriveranno a Parigi. Non può però permettersi altrettanto rigore nella selezione dei calendari durante le settimane della moda, soprattutto perché ciò che offre di contorno risente della sfiducia delle istituzioni e, quindi, di sponsor per iniziative collaterali. Si è però assistito recentemente a una crescente attenzione per l’artigianato, il cui prodotto è apprezzato anche dai creativi italiani emergenti.
Il progetto di gemellaggio fra le due capitali è ripreso dopo la pausa durante la gestione Alemanno, e la moda costituirebbe un ponte naturale per il passaggio creativo fra le due città. Ma ciò comporta una verifica delle due stazioni di transito. Se il sistema delle sfilate potrebbe funzionare, il vero problema sta nella produzione di mostre tematiche. La cultura del prodotto ci vede infatti in una posizione decisamente inadeguata rispetto alla Francia, Paese nel quale alla moda si è sempre attribuita una importanza politica, economica e culturale, oltre che estetica.
In Italia sono anni che si tenta di stabilire una relazione fra arte e moda che non sia soltanto citazionismo reciproco, ma non esiste un sistema che supporti tale unione. Ci siamo resi conto, solo perché spinti dalla crisi, dell’importanza dell’artigianato come forma d’arte, e così siamo diventati tutti artigiani. Generando così una confusione di ruoli, cercando il consenso di chi guarda al made in Italy come risorsa creativa del futuro, ma senza mai perdere quei complessi che ci rendono incapaci di nobilitare realmente certe professioni: come dire che il lato artigiano c’è, ma sta vicino a qualcosa di più serio. L’unico settore che è riuscito a riqualificare l’immagine del “lavoro semplice” è quello enogastronomico: grazie a film, a bellissime immagini di cucina e ad altri prodotti complessi e contemporanei, cuoco, cameriere e sommelier ci sembrano professioni allettanti.
Intanto a Parigi sono andate in scena mostre ed eventi memorabili. Eternity Dress, secondo appuntamento della collaborazione fra il Musée de la mode al Palais Galliera e Tilda Swinton. Nell’anfiteatro dell’École des beaux-arts, a fine novembre l’attrice e Olivier Saillard – direttore del museo – hanno costruito l’abito dell’eternità, “une robe, une seule”. Con il sostegno di Chloé, nel quadro del Festival d’automne, la performance ha raccontato come si confeziona un abito; quell’abito simbolico che non faremo mai, tanto è minimale e contrario alle continue evoluzioni della moda. Come celebrando un rito, Saillard prendeva le misure del corpo dell’attrice e insieme percorrevano le tappe che portano alla costruzione del modello su carta e poi su stoffa. La musica accompagnava perfettamente i movimenti e la voce della Swinton, la quale scandiva i numeri delle misure del proprio corpo, i diversi tipi di colletto e poi i nomi dei couturier che hanno fatto la storia della moda. Un racconto del lavoro artigianale che eleva la professione del sarto a quella dell’artista, che ogni volta replica le proprie capacità, usando l’esperienza per raggiungere la perfezione della semplicità.
All’opposto di questa concettuale celebrazione del lavoro artigianale, un altro esempio: meno potente come costruzione ma stupefacente per le qualità divulgative, per la capacità di unire le forze dell’arte moderna e di quella contemporanea grazie al nome di Christian Dior. Al Grand Palais, l’esposizione Miss Dior ha raccontato il rapporto del couturier più famoso del mondo con gli artisti e i movimenti culturali coevi, culminando con il lavoro di quindici artisti contemporanei ispirati dagli elementi fondamentali che caratterizzano il suo stile. Le opere degli amici artisti – da Dubuffet a Dalí, da Picasso a Man Ray -, le illustrazioni di René Gruau insieme alle immagini degli atelier di avenue Montaigne, e ancora lo studio dei flaconi del profumo Miss Dior introducevano all’accoppiamento tra gli abiti storici e i lavori degli artisti. Così il pied-de-poule ha ispirato Polly Apfelbaum per l’installazione di un megatappeto realizzato a mano in Messico secondo le tecniche tradizionali della tessitura di Oaxaca; mentre un segno forte lo lascia il video di Shirin Neshat con Nathalie Portman, testimonial del profumo, a cui viene tolta tutta l’immagine glamour rivalutando la sua bellezza interiore.
La mostra era a ingresso gratuito e la lunghissima fila all’ingresso era eterogenea come non accade in Italia: raramente da noi si vedono, agli eventi di moda, bambini e anziani, uomini apparentemente non del settore e ragazzi vestiti magari senza particolare cura. Insomma, è ancora da costruire quel patrimonio di creatività che potremmo “scambiare” con Parigi.
Clara Tosi Pamphili
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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