Nella densa e intricata mole di eventi, mostre e presentazioni della settimana milanese del design ci si muove molto e a fatica, in particolare quest’anno, visto l’affollamento dell’edizione; non si riesce mai a vedere tutto e, spesso, quello che si vede ci delude e quello che si perde sembra essere ancora più bello di quanto immaginato.
Non serve disperarsi, perché dalla prossima edizione usciremo con lo stesso senso di smarrimento, dato dal brusco passaggio da giorni di frenesia al niente, sazietà da bombardamento d’immagini e dipendenza che ci porta a desiderare una nuova edizione ancora e ancora.
Un anno è probabilmente il giusto lasso di tempo per placare questo turbinio di emozioni e soprattutto per far sedimentare tutte le nuove informazioni assorbite. Prima però di prenderci anche noi il tempo della riflessione, vogliamo stilare, a caldo, una piccola classifica di ciò che ci ha più entusiasmato e – perché no? – anche di quello che ci ha più deluso.
Partiamo quindi dalla top five, riconfermando le aspettative riposte in Padiglione Italia, mostra tematica curata da Alberto Zanchetta che ha svolto con disinvoltura un tema, portato a termine una ricerca e mostrato dei risultati. Il designer italiani coinvolti nel progetto dimostrano così non solo che il made in Italy è ancora competitivo, ma anche la capacità dei progettisti di saper fare gioco di squadra.
La zona Ventura-Lambrate si conferma un’interessante fucina di sperimentazione. Tra le decine di esposizioni scegliamo quella curata dalla Royal Accademy of Art dell’Aja, dove i giovani designer, con indosso camici bianchi, testano, collaudano le proprie creazioni presentando sul banco l’intero iter che li ha portati a Milano.
Suggestiva e affascinante l’installazione artistica di Citizen, Light is Time alla Triennale,in cui 80mila dischi dorati, apparentemente sospesi, invadono lo spazio. Sono le masse oscillanti, elementi strutturali che muovono il meccanismo interno degli orologi. A idearla, insieme al design team di Citizen, è l’architetto giapponese Tsuyoshi Tane dello studio parigino DGT.
Uno spazio in cui torniamo sempre con piacere è la galleria di Rossana Orlandi, che quest’anno dedica un’ala alla designer Nina Zupanc. La designer slovena dimostra, ancora una volta, che il design può e deve essere anche una professione femminile.
Una vera e propria scoperta è stata la mostra Onwards, a cura di Raffaella Guidobono e Claudia Pignatale, non solo per la splendida location di H+, nel cuore di Moscova, ma soprattutto per la selezione di oggetti e i talk di approfondimento.
Arrivando poi alle dolenti note. A non convincere pienamente è l’evento che la rivista Interni organizza alla Statale. Alla 17esima edizione la manifestazione non decolla e il format si ripete, sempre uguale, senza slanci. Con un’eccezione: la nuvola u_cloud dello studio Speech Tchoban & Kuznetsov.
Deludente, rispetto al movimento creativo degli anni passati, sono le esposizioni dell’ex Ansaldo. Tra queste la mostra XXIII Compasso d’Oro e Fantasyland non apportano grande rinnovamento. Neanche Elita, con il suo fitto programma di eventi, riesce a smuovere la polvere.
Ma il design district più deludente di quest’anno è senz’altro Brera. Tanti gli showroom (spesso troppo imbalsamati), i negozi, gli atelier, i locali aperti fino a tardi. Poca visione d’insieme che rischia di rendere questo interessante centro creativo una mera location di eventi e feste sparse tutte disgiunti tra loro.
Alcune delusioni arrivano anche da piccole mostre, a volte dislocate rispetto ai distretti, come l’esposizione di Kaleidoscope in via Macedonio Melloni. Una selezione apparentemente casuale di object trouvé, da parte di noti designer, lascia il visitatore comune perplesso.
E come ultima pecca inseriamo la nascita come funghi ogni anno di nuovi distretti che raggruppano una manciata di eventi scollegati tra loro e disorientano persino gli addicted. Ad esempio, quest’anno chi ha visto zona Sant’Ambrogio?
Valia Barriello e Zaira Magliozzi
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