Violent Beauty. La sublime violenza della contemporaneità, I
Cosa spinge gli artisti ad affrontare il tema della violenza? E in che modo avviene la formalizzazione dei loro messaggi? Un saggio in due puntate firmato da Marco Ragonese ci accompagna in questo percorso di ricerca che va da Warhol a Serrano, passando per Oliviero Toscani e Marina Abramovic.
“What happened there, is – now you must all reset your brain – the greatest artwork ever”, disse il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, suscitando un vespaio di polemiche e non poco scalpore. Ma l’affermazione – seppur provocatoria e parzialmente spiegata con la frase “It is a crime because the people did not consent” – permette di riflettere sulla fascinazione che la violenza esercita sull’atto creativo. Visionando le foto dell’evento che ha segnato l’inizio del XXI secolo, le sagome delle persone che volano dai due grattacieli in fiamme rimandano immediatamente ai suicidi rappresentati da Andy Warhol nelle sue Death and Disaster series negli anni Sessanta. In queste opere il maestro del pop fotografa, per poi serigrafare, alcuni suicidi, nel tentativo di disinnescare il dato drammatico di un gesto così estremo. Ma Warhol riproduce anche incidenti automobilistici, disastri aerei – probabilmente avrebbe riprodotto anche le Torri in fiamme – e sedie elettriche, attivando così quel processo di estetizzazione che avrebbe permesso di esibire scene di morte e fotografie segnaletiche nelle gallerie statunitensi. Un raffinato esperimento che evita la spettacolarizzazione in favore della sublimazione e ha nel ricalco serigrafico della fotografia la “mondatura” della realtà effettiva in favore di un reale artistico.
Quest’ultimo costituisce la nuova dimensione abitata dai soggetti di Andres Serrano, che nella serie The Morgue (1992) realizza dei close up di cadaveri sul lettino dell’obitorio. Persa la carnalità, questi corpi assumono una condizione statuaria paragonabile all’espressività dei monumenti barocchi, dissolvendo qualsiasi connessione con il contingente. Lontani anni luce dalla foto della campagna di Oliviero Toscani per Benetton (1990), in cui il fotografo italiano, fermando su pellicola gli ultimi istanti di vita di David Kirby malato di Aids, si attaglia una quotidianità visibile e non auspicabile che suscita fastidio e critiche.
È innegabile, però, che il medium principale con cui rendere visibile la relazione tra arte e violenza sia rappresentato dal corpo umano, spesso sottoposto a performance al limite del masochismo o della gratuità. Gli anni Settanta segnano, da questo punto di vista, un’accelerazione nella ricerca dei limiti corporei sollecitati da azioni esterne di natura violenta. Certo il clima generale (la liberazione sessuale, la spinta verso le utopie sociali) sollecita gli artisti a sperimentare sulla propria pelle – letteralmente – alcune soluzioni fino a quel momento impensate. Nel 1971 Chris Burden in Shoot si fa sparare da un suo amico con un fucile da una distanza di cinque metri, rendendo complice e correo l’osservatore, senza il quale la performance non avrebbe luogo e sovrapponendo così i ruoli di vittima e carnefice. Un anno prima Vito Acconci aveva dato vita a Trademarks, una performance molto personale resa visibile soltanto da alcune fotografie che l’artista americano aveva prodotto tingendo la propria pelle, precedentemente morsicata a lungo, e trasferendone l’impronta su carta.
L’autolesionismo diventa affermazione dell’unicità, capace di trasformare le tracce dei morsi in nuove, irripetibili, impronte digitali. Il passaggio successivo avviene con l’utilizzo del corpo come strumento di catarsi, medium capace di “redimere” lo spettatore grazie al proprio sacrificio. Questo approccio “cristologico” è alla base del lavoro di Hermann Nitsch, che nella serie Aktion mette in scena crocifissioni, dissezioni e squartamenti di corpi con notevole profusione di sangue. Tali azioni mirano a indurre forzosamente una reazione nello spettatore e a renderlo partecipe di una festa in cui abbracciare la tragicità della realtà. E, al tempo stesso, accettare il mondo e i suoi estremi. Ma c’è anche chi combatte contro la violenza mondana attraverso azioni di denuncia. In Balkan Baroque Marina Abramovic, alla Biennale di Venezia del 1997, compie un atto d’amore estremo verso le popolazione balcaniche massacrate nella guerra Jugoslava pulendo centinaia di ossa bovine sanguinanti. Il fetore dei resti nel caldo veneziano, la visibile stanchezza dell’artista completamente ricoperta di sangue, innescano riflessioni sulla necessità di comprendere la sofferenza fisica in quelle situazioni rese visibili ma immateriali dai media. La denuncia si traduce in gesto gratuito e violento in Santiago Sierra che, per dimostrare il potere corruttivo del denaro, nella sua Linea di 250 cm tatuata su sei persone remunerate (1999) tatua sulla schiena di sei giovani cubani una linea continua, previo pagamento di 30 dollari.
L’artista spagnolo destabilizza l’osservatore – lo farei anche io? – e i valori su cui ognuno crede di avere fondato la propria personalità, esaltando il potere violento e biopolitico del denaro. Ma è nel nuovo millennio, come vedremo nella seconda parte di questo breve saggio, che avviene un cambiamento di paradigma: il corpo scompare in favore di suoi succedanei più subdoli e inquietanti. E per questo affascinanti.
Marco Ragonese
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