Artisti italiani oltreoceano. Parla Beatrice Scaccia
Beatrice Scaccia, classe 1978 e proveniente da una piccola cittadina del centro Italia, si è trasferita a New York nel 2011. Impegnata nella sua ricerca anche attraverso la partecipazione a importanti residenze, è immersa nella frenesia di questa metropoli e nel lavoro presso il Koons Studio. E concilia tutto con picchi di fantasia e follia. L’abbiamo intervistata e, se siete nella Grande Mela, il suo studio a The Clemente è aperto venerdì 16 e sabato 17 maggio.
Cerchiamo di procedere con ordine e ripercorriamo i passi importanti del tuo percorso prima di New York.
Procedere con ordine mi suona difficilissimo. Proviamo però: un liceo scientifico sperimentale in chimica, per me utilissimo; poi l’Accademia di Roma, nonostante i miei dubbi tra lo scegliere di scrivere o di dipingere; l’incontro con Gino Marotta, che mi riempì di entusiasmi, frustrazioni e curiosità.
Poi il dopo Accademia: esperienze nella decorazione, insegnamento, lavorare al fianco di Marotta. Non mi annoiavo ma non ero contenta. Sai quando hai la camicia abbottonata male e cerchi di sistemartela addosso affannosamente e con imbarazzo? Quella era la mia sensazione a Roma.
Quando è sopraggiunto il desiderio di trasferirti a New York?
A New York venni nel 2007 per curiosità, in realtà volevo vederla per respirarne l’aria, non per ambizione. Dopo venti giorni qui avevo parlato con un avvocato per ottenere un visto. Ricordo soltanto che mi sentivo una trottola felice e del tutto a mio agio. Mi innamorai delle facce della gente, del movimento, del vento, dell’Hudson.
Non è stato il mondo dell’arte contemporanea a conquistarmi e a farmi decidere di spostarmi. Mi interessa senza alcun dubbio, ma lo vivevo, e vivo, sempre con cautela e distanza.
Un trasferimento a singhiozzi, com’è di prassi, poi l’ingresso nello studio di Jeff Koons, la O1 (il visto da artista) che vuol dire la tranquillità a livello burocratico. Come si conciliano questi tre aspetti: vivere in una città fortemente competitiva, lavorare da Koons e portare avanti la tua ricerca? Considerata la forte componente narrativa nei tuoi lavori, possiamo considerare il lavoro da Koons anche come un bacino di spunti per la tua riflessione sulla natura umana?
Ottenere il visto è impegnativo. Il primo visto O1 in realtà lo ottenni grazie al Lower East Side Printshop. Era il 2011, mi trasferii qui senza avere un’idea di nulla e qualche tempo dopo entrai a far parte del Koons Studio. Questo luogo è importante soprattutto per gli incontri. Amore e amicizie sono iniziate all’interno dello studio.
Per quanto riguarda competizione-Koons-mia ricerca… direi che per conciliare tutto serve tanta fantasia e un’elevata dose di follia. Ti devi convincere che è divertente correre da un posto all’altro, dormire poco, fare il turno di notte: ti devi raccontare di essere una specie di wonder woman che sa concentrarsi, funzionare in qualsiasi circostanza. Bisogna saper spegnere il lato professionale e tecnico (quello che uso da Koons) e attivare quello sperimentale e incerto, ogni volta che si ha un po’ di tempo. Se ci si ferma troppo si rischia di capire inoltre che “non è una cosa seria” e ci si avvilisce.
Nel settembre-ottobre del 2013 hai partecipato al programma di residenze di Residency Unlimited (Brooklyn), a febbraio la presentazione dei lavori attraverso un intenso dialogo con la curatrice Jodi Waynberg. Eve, il personaggio protagonista dei tuoi lavori, ha subito un’evoluzione, quale?
Residency Unlimited per me è stato un momento importante. Mi ha costretto a fermarmi e riflettere, invece di incartarmi e incantarmi nel mio studio. I vari studio visit sono stati momenti di “brainstorming”. Con Jodi ci siamo trovate subito in sintonia. Quando l’ho conosciuta mi ronzava nella testa di sviluppare maggiormente il personaggio di Eve.
Poco per volta tutto è sembrato naturale e ho deciso di costruire un mondo di Eve, una sorta di brand poetico, che si sviluppa su diversi livelli e si avvale anche di utilissimi collaboratori, oltre ai bambini che hanno partecipato, ci saranno anche Toshiaki Noda con un’installazione di piccole ceramiche e, quasi sicuramente, Lionel Laquerriere per una “Eve-music-signature”. Per concedere a un personaggio di slegarsi da noi, bisogna riuscire a farlo interpretare, trasformarlo anche attraverso gli altri.
A maggio hai cominciato una nuova residenza con Artists Alliance (Lower East Side) e i lavori saranno presentati a fine agosto presso il Culture Fix e a settembre a Milano presso Effearte. In questa seconda residenza il baricentro sarà centrato ancora di più sul punto di vista esterno, lo sviluppo delle azioni che farai compiere ad Eve provengono dalla visione di un gruppo di bambini della scuola elementare che hai frequentato tu da piccola. Puoi raccontarci il progetto?
L’idea è nata poco per volta, come dicevo. Volevo che Eve scegliesse cosa fare nel suo mondo; il mio lavoro è da sempre legato alla narrazione di movimenti, la ripetizione, il “frame by frame”. Volevo però abbandonare ogni logica, ogni giudizio e caratterizzazione personale almeno nella scelta, nel momento iniziale.
Qualche mese fa chiesi a mio nipote di disegnare Eve. Ha appena compiuto otto anni. Gli mandai una descrizione scritta, molto breve, e gli chiesi di scegliere dieci azioni. I disegni inviati mi incuriosirono. I bambini considerano l’assurdo e il quotidiano sullo stesso livello, com’è sensato che sia. Camminare, dormire, volare o mangiare fiori sono sullo stesso piano, contengono la stessa dose di sorpresa. Presa dall’entusiasmo ho pensato di coinvolgere tanti bambini, bambini che non mi hanno mai conosciuta e di accumulare punti di vista e frammenti di storie. Così è stato.
Mi sono arrivati in una bella busta sigillata 97 disegni, ognuno con una Eve intenta a fare qualcosa. Sono meravigliosi. Attraverso il mio sguardo ora, sto cercando di interpretare nuovamente (dipingendo e realizzando gif animation) quello che mi hanno suggerito. Mi attengo alle loro scelte, a quello che hanno pensato loro.
Eve è simultaneamente tante cose. Lo è attraverso le sembianze perché declinato secondo diversi mezzi espressivi e lo è nei contenuti perché racchiude nel suo esprimersi diversi tratti salienti della natura umana…
Eve rappresenta in qualche modo un drammatico, “patetico” tentativo di ritorno all’infanzia e l’accanimento nel cercare leggerezza e magia. Ho scelto di lavorare con un personaggio in modo del tutto spontaneo, senza domandarmi come mai. Ora posso dire di essere attratta da questa idea perché un personaggio ha sempre una voce e un punto di vista sul mondo. L’idea di prendere spunto da un processo creativo legato principalmente alla scrittura e forzarlo per sviluppare un progetto visivo è intrigante. Eve è fatta di tentativi di narrazione, inceppamenti, prime pagine e citazioni.
Sono da sempre convinta che si ha bisogno di un limite per elevarsi, bisogna creare ostacoli e poi scovare soluzioni. Eve è il mio “limite” per il momento. Attraverso le sue sembianze e il suo mondo voglio continuare ad aggiungere e poi cancellare, costruire e poi velare. Alla base c’è l’illusione che creando e “sovrassaturando” un mondo che non esiste possa distrarmi dalla consapevolezza che il mondo reale invece scompaia intorno a noi e nei nostri occhi, ogni giorno. L’unica cosa che mi fa lavorare così tanto è il disperato tentativo di trattenermi, di non dissolvermi.
A casa Eve insomma si maschera per non vedere l’esterno dissolversi e non solo per nascondere le nostre sembianze agli altri.
Giorgia Noto
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