Dal carroponte ai bengalesi. Intervista con Fabrizio Bellomo
È il protagonista della rubrica di fotografia di Artribune Magazine numero 18. Fabrizio Bellomo, classe 1982, viene da Bari ma risiede da tempo a Milano. Dove però ha portato un gusto spiccato per le storie popolari. Qui racconta nel dettaglio il suo lavoro.
Fabrizio Bellomo (Bari, 1982) si è laureato in Disegno Industriale alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze nel 2007. In seguito, grazie a una borsa di studio della Regione Puglia, ha frequentato il Master in Photography and Visual Design presso la Naba e Forma a Milano. Bellomo è legato al suo territorio d’origine in modo viscerale e ancestrale. Molti dei suoi lavori, infatti, prendono spunto e raccolgono preziosi stimoli dalla cultura popolare di cui la Puglia è fortemente impregnata. Tematiche che vengono trattate sempre con un occhio e un atteggiamento critico nei confronti del linguaggio, che di volta in volta utilizza, che si tratti di fotografia, di video, di cinema. In tal modo si rifà a una sorta di tradizione italiana non scritta in cui vengono mescolate la cultura popolare e la ricerca sui registri e sui codici della rappresentazione.
32 dicembre, litoranea s. giorgio – torre a mare, la guerra delle sgagliozze sono lavori del 2011 in cui Bari è protagonista.
Da un lato mi piaceva l’idea di accorpare e catalogare una serie di mestieri arcaici della mia città. Mestieri autonomi rispetto all’organizzazione dei mercati: venditori di strada, ambulanti di vario genere ai quali basta un tavolino e la propria merce per fare la propria attività.
32 dicembre, sui botti di capodanno, cita nel titolo un film di Luciano De Crescenzo che giocava sul concetto di tempo. Quello tra birre e carne alla brace è la guerra delle sgagliozze. Mentre quello sui venditori di polpi è intitolato litoranea…
Mi viene in mente il lavoro che Eugène Atget faceva a Parigi, all’inizio del XX secolo, sui mestieri scomparsi.
Bari è un territorio (come tutto il Sud dell’Italia e non solo) ancora pregno di queste “maestranze” e di questi modi di vivere che io trovo meravigliosi. Sempre più questi modi di abitare il territorio tenderanno a scomparire, minacciati da nuove norme europeiste. Si perderanno queste realtà particolari per cedere definitivamente il passo a quell’omologazione generale di cui Pasolini parlava decenni fa.
Da un lato, appunto, mi piaceva l’idea di catalogare i venditori di fuochi artificiali, di carne alla brace e birra, di frutti di mare, di polpi e ricci… Dall’altro lato, invece, mi interessava lavorare sul registro linguistico. Per realizzare il lavoro ho utilizzato una macchina fotografica in grado di registrare anche dei video. Così chiedevo a queste persone se potevo fare loro una fotografia, mentre in realtà spingevo il tasto REC e facevo un video. Prolungavo volutamente, di molto, il tempo di posa richiesto in genere per una “fotografia moderna” e quindi per essere credibile nei loro confronti facevo finta di mettere a fuoco, di impostare i diaframmi, sempre piegato sul mirino a guardare in camera e non smettevo sino a quando non ero soddisfatto del girato. Recitavo la parte del fotografo, cosa che mi ha permesso di vedere meglio la “recita della posa”. Mi diverte sempre molto mischiare la cultura popolare a discorsi sul registro e sul linguaggio.
Sono interessato al processo di stratificazione delle immagini, da dove deriva un determinato modo di approcciarsi al divenire immagine, dalla foto di famiglia al ritratto ecc.
www.fabriziobellomo.altervista.org (2009-…) è un lavoro che si colloca pienamente in questo ambito.
Sì, il sito si chiama fabriziobellomo.altervista.org, ma non è un sito di catalogazione di lavori o un portfolio online, è un lavoro che gioca con una serie di stratificazioni iconografiche: dal ritratto di donna con il cane alla finestra con paesaggio, al biscione. Immagini simili di epoche diverse che sovrapponendosi vanno a delineare una sorta di genealogia del simbolo o della rappresentazione in questione. Per la donna con il cane si va dalla Dama col cagnolino del Pontormo a Paris Hilton con il suo chihuaha in braccio. Mi interessa la rappresentazione ma anche il suo relazionarsi al linguaggio scritto, alla parola. Nello stesso lavoro ho provato a cercare su Google Image la frase “Guerra in Iraq” sia in arabo che in inglese, la differenza del responso iconografico che viene fuori dalle due ricerche è interessante: iper-cinematografico il responso visivo anglofono, molto più crudo quello arabo.
È un lavoro a tratti molto vicino a tunisino, rumeno, marocchino, nigeriane del 2012. Credo che l’aspetto principale di quanto stai facendo sia la consapevolezza nei confronti dei possibili diversi utilizzi del mezzo.
Questo è un progetto che non ho ancora finito in realtà. Il far passare del tempo dopo la “fine” di un lavoro mi aiuta a farlo sedimentare, così da poterlo rivedere a mente più distaccata e mettere di nuovo tutto in discussione.
Sostanzialmente in questo lavoro ho fatto degli screen-shot allo schermo del mio mac dopo aver cercato sui motori di ricerca il responso visivo dei termini: tunisino, rumeno, marocchino e nigeriane. Il risultato della ricerca corrisponde, per lo più, a una serie di foto segnaletiche (tunisino, rumeno, marocchino), così il primo impatto che si ha nella visualizzazione generale della pagina web dopo queste ricerche è, ad esempio: marocchino = foto segnaletica, quindi marocchino = criminale. Vi è una sorta di criminalizzazione di una parola legata a un popolo. In Italia una nigeriana è una puttana. Penso che un lavoro del genere abbia le sue fondamenta sulla riflessione relativa alla natura colonialista del mezzo fotografico. Il macabro rimando è ai criminologi Alphonse Bertillon e Umberto Ellero, all’antropometria tutta e alla catalogazione lombrosiana degli individui.
Duchenne de Boulogne e tutta una branca della fotografia e della fisiologia è interessantissima in tal senso.
Non conosco bene il lavoro sulla fotografia medica di Duchenne de Boulogne, grazie per la citazione, farò delle adeguate ricerche. Altri miei riferimenti/citazioni in merito sono sicuramente Ando Gilardi, che nel suo Wanted parlava di come la fotografia si sia diffusa principalmente attraverso le foto segnaletiche di Bertillon ed Ellero, citazione questa che mi piace sempre molto accorpare a quest’altra dei Lumière, che dicevano che il cinema serve solo a riconoscere meglio dei rivoltosi durante i moti di piazza. La seconda è una citazione fatta da Enrico Ghezzi durante una conferenza tenutasi a Bari l’anno scorso, a cui ero presente.
A proposito di precinema, hai realizzato πριν από to Muybridge pochi mesi fa. Hai dato movimento al Fregio dell’Acropoli, sembra un flip book.
Sì, infatti il flip book altro non è che uno dei tanti esempi di “primo cinema”, basti pensare al Mutoscopio brevettato nel 1894 da Hermann Casler. Un apparecchio che permetteva la visione di brevi scene animate, attraverso un meccanismo per cui una serie di fotografie cartacee si susseguivano una dietro l’altra, come in un flip book appunto.
Tornando al mio lavoro: si qui ho trattato le singole tavole del fregio del Partenone come se fossero dei fotogrammi, quindi ho dato loro un tempo, un frame rate vicino a quello del primo cinema, e così ho “creato” il movimento.
Che era proprio il senso di quei fregi. Mi rendo conto di fare un’affermazione anacronistica, ma i fregi avevano un valore pre-cinematografico. Si pensi alla colonna Traiana.
Sì, questi bassorilievi, insieme ad esempio a quello del Lokeśvara dalle mille braccia di Banteay Chhmar in Cambogia, credo siano le prime forme di immagine in movimento che conosciamo. Mi interessava porre due linguaggi contrastanti in relazione, o meglio sottolinearne una relazione già esistente, da un lato l’aspetto estremamente statico del bassorilievo, della scultura e della sua materia, dall’altro il movimento del cinema. Quando nel video il movimento a un tratto torna a essere un fermo immagine, la pietra, la scultura e la fotografia si mostrano in tutto il loro senso di staticità.
Mi pare che il tuo atteggiamento nei confronti del circostante sia di matrice antropologica. È come se tu fossi un etologo, un osservatore.
Più che un etologo sono una persona disturbata, ossessiva… Analizzo e mi analizzo fin troppo. Quando non è strettamente la mia vita il soggetto dell’analisi, sono interessato al quotidiano e alle microstorie che diventano per me allegorie di un qualcosa di più universale.
Instax 200 sembra una mappatura, è un lavoro tassonomico che richiama, mutatis mutandis, Uomini del XX secolo di August Sander.
Sono tutti ritratti di bengalesi che girano per Milano per vendere fiori nei ristoranti, portano con sé una macchina Fujifilm instax 200 (da cui prende il nome il lavoro) per scattare foto ricordo da vendere alle coppiette o a chiunque le voglia comprare. Io li ho ritratti e catalogati con una macchina fotografica con pellicola a sviluppo istantaneo identica a quelle che loro utilizzano, procurata appositamente per questo lavoro.
Per i bengalesi questa delle fotografie e della vendita di rose e accendini è la prima forma di sussistenza, una volta arrivati nel nostro Paese, il primo step del loro percorso da italiani. Girando per l’Italia e l’Europa si trovano un po’ in tutte le grandi città bengalesi che vendono rose e gadget vari nei ristoranti. Però, secondo la mia esperienza, singolare è il fatto che i bengalesi e solo loro a Milano e solo qui, scattino fotografie istantanee come forma di sussistenza. Proprio Milano, città che ha un rapporto più che particolare con l’immagine.
Quando fotografi il venditore di birra a Bari, il tuo è un atteggiamento di partecipazione e non da mero osservatore. Mi pare che tu viva insieme ai tuoi soggetti, anche se mi piace intravedere uno studio comportamentale in tutto questo.
L’atteggiamento di partecipazione rispetto ai lavori di Bari delle “finte fotografie” penso sia derivato in primis dalla sfaccettatura relazionale presente nell’operazione: la mia recita di far finta di essere un fotografo per smascherare la posa, quindi il gioco di relazione che questo atteggiamento ha creato. In secondo luogo sì certo: io vivo insieme ai miei soggetti, sono luoghi che frequento anche da cittadino della mia città, luoghi che adoro per la loro carica vitale e di umanità, luoghi dove sto bene e dove non vado a rubare delle immagini ma dove piuttosto tento di capire dei meccanismi di relazione, o più semplicemente dove vado a bere una birra. Lo studio comportamentale di cui parli mi sembra abbastanza evidente, ovvero: il rapporto tra l’uomo e la macchina, in questo caso la macchina è quella fotografica, ma non sempre, come macchina o come concetto di macchina, mi focalizzo sull’apparecchio rappresentativo.
È un rapporto che negli ultimi anni ha avuto uno sviluppo incredibile.
Il mio modo di operare e anche quindi quello di vivere come dicevo prima è sempre ossessivo, l’ossessione credo sia uno dei sintomi della ricerca, perdonami il preambolo, ma mi serve per introdurre qualcosa che ha a che fare con il rapporto uomo – macchina che hai sottolineato. Quando nel 2012 ho installato una mia opera, all’interno del sito del Carroponte di Sesto San Giovanni, per diversi giorni, dopo il giorno dell’installazione dell’opera, ho controllato sui social network e sul web in generale, che tipo di impatto avesse avuto il mio intervento sulla comunità locale, quello che più mi ha soddisfatto è stato trovare su un profilo facebook una foto della mia installazione con accanto un commento di un utente che diceva esattamente così: “Dopo averlo letto passando in macchina, ho fatto pulizia sul PC del lavoro. E gli ho dato un bacino”. È ironico ma nemmeno troppo. Il rapporto dell’uomo con i mezzi è cambiato molto, ma il mezzo è pur sempre un mezzo di produzione, che sia un tornio o un PC.
Ecco, parliamo del lavoro che hai installato al Carroponte a Sesto San Giovanni: ABBI CURA DELLA MACCHINA SU CUI LAVORI. È IL TUO PANE! (2012).
Il lavoro è l’ingrandimento di una scritta/targa che ho trovato in un’acciaieria dimessa di Bari, La Scianatico, fabbrica molto simile, se vogliamo, a quelle del nord Milano, alla Breda, alla Falck. Mi è sembrato interessante ri-collocare questa targa proprio lì, nell’ex Breda-Marelli oggi industria culturale. Mi interessava fare migrare quella scritta dal sud al nord con un percorso simile a quello degli operai di un tempo. La migrazione dell’industria fordista si ripete tale e quale nell’industria culturale. La placca originaria era di 10 x 30 cm e qui è diventata due teli mesh di 14,2 x 4 m. Di fronte al Carroponte, inoltre, c’è una fabbrica ancora attiva che produce vetro, la Vetrobalsamo. Cosi i due enormi teloni con la scritta/immagine, se da un lato erano rivolti all’interno dell’industria culturale, dall’altro erano rivolti agli operai in entrata e in uscita dalla Vetrobalsamo, e si sono offerti, inoltre, a tutti i pedoni e gli automobilisti che sono passati di li.
In contemporanea, mentre preparavo l’installazione, avevo reperito tramite ricerche d’archivio un vecchio numero de La lettura del 1912 (esattamente di cento anni prima) in cui era pubblicata la pubblicità di una ditta che all’epoca produceva delle tabelle educative, quelle che venivano appese nelle fabbriche, simili a quella protagonista della mia installazione, così, attraverso la collaborazione con un giornale locale di Sesto San Giovanni Nuova Sesto, ho ri-pubblicato, il giorno dell’inaugurazione dell’installazione, questa pagina pubblicitaria di un’altra epoca. Non c’era nessuna spiegazione, era come se un certo tipo di mentalità, di grafica, di carattere riemergesse dopo cento anni sulle pagine di un giornale contemporaneo.
Un mondo paternalistico, ormai scomparso: “Non si deve sputare per terra per la decenza e l’igiene”, “Abbi cura della macchina su cui lavori, è il tuo pane!”. Il clima è totalmente diverso in Carrellata del 2013. È un lavoro sul paesaggio urbano? Sulla prostituzione? Come lo potremmo definire?
Il paesaggio urbano è presente, ma è anche un paesaggio sociale. Spesso e volentieri quello che mi interessa è, come ho già detto, il rapporto dell’individuo rispetto alla possibilità di essere rappresentato, registrato, catturato dalla macchina. Qui ho Semplicemente piazzato una macchina fotografica che fungeva da telecamera sul finestrino dell’auto dalla parte del viaggiatore, dove c’era il mio amico e fotografo Giuseppe Fanizza che mi aiutava. Ho fatto una vera e propria carrellata per le vie di Milano, in un paio di notti, durante due nevicate. Quindi ho montato i materiali in maniera analitica, ho accorpato le singole riprese per tipologia di reazione: l’indifferenza, il fastidio, la cordialità, lo scherzo, la reazione violenta ecc. Ogni volta che mostro questo lavoro ricevo parecchie critiche.
Perché?
Penso per moralismo. Mi dicono che “è un lavoro che sfrutta queste povere persone, e che queste persone sono già sfruttate da tutti”. Forse hanno ragione, il mio intento era quello di esasperare il lato colonialista del mezzo e per farlo effettivamente ho utilizzato soggetti già largamente sfruttati dal colonialismo stesso.
C’è un tuo lavoro che mi diverte molto, è l’immagine di un vecchio su un carro con dietro un cartellone pubblicitario con scritto: Italia, Forza (2005-2008).
Quella è una vecchia fotografia del 2005 che, durante l’università e in maniera del tutto autonoma rispetto a mostre o commissioni, avevo affisso su un cartellone pubblicitario a Firenze nel 2008, è ancora lì perché il cartellone che scelsi per l’affissione era abusivo e quindi indicato dal comune come inutilizzabile per la normale affissione commerciale.
È una forzatura leggere il tuo lavoro in chiave politica?
In realtà, rispondendo con una battuta: non credo di aver ancora sviluppato una piena e matura coscienza politica. Non so bene cosa significhi la parola politico. Penso che sia politico ragionare su dei discorsi legati al linguaggio e ai registri e su come questo linguaggio e questi registri possano creare una sudditanza verso determinati aspetti della nostra quotidianità. Mi interessa meno invece quando la parola politico diventa una lotta vera e propria con tanto di vincitori e vinti, quelle lotte e dispute, dove si sventolano bandiere come allo stadio.
Comunque restando in tema e parlando di politica mi piace riportare una frase di Winston Churchill: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”.
Però Senza titolo del 2010, una sorta di puzzle che crolla su se stesso, non può non rimandare a una dimensione politica, anche se in maniera giocosa.
Sì, è vero, l’immagine evoca il crollo del palazzo della Regione Lombardia, il mausoleo di Roberto Formigoni al quartiere Isola di Milano. Non ho scelto un palazzo a caso, ma uno con un forte potere iconografico, al centro di una serie di lotte “politiche” che hanno interessato il quartiere stesso; detto ciò, il dato che più mi interessa di quel lavoro rimane sostanzialmente quello linguistico, il dato “politico” diventa in questo caso una pura scusa per esercitare un vezzo linguistico, ho più volte pensato, anche a causa dei tanti fatti di cronaca, di rifare lo stesso lavoro utilizzando le immagini di Pompei ma poi la pigrizia, per fortuna, ha avuto il sopravvento.
Recentemente hai curato presso la Galleria Bonelli di Milano con la collaborazione organizzativa di Chiara Buzzi la rassegna di film e video Prosecco e Pop-corn. Come si colloca questa attività all’interno del tuo percorso?
Non sono nuovo a progetti curatoriali (amarelarte con Bruno Barsanti e i progetti editoriali di Cartoline dalle Puglie), mi piace farli, mi diverte cambiare il ruolo nella vita come nel lavoro. Nel caso specifico il tutto è nato dalla proposta che mi ha fatto tempo fa Chiara Buzzi, che dirige questa galleria a Milano, ovvero pensare a un progetto fra video e cinema che si potesse svolgere nelle pause fra una mostra e l’altra; a lei interessava creare un format in cui fosse importante utilizzare la galleria fra le pause di disallestimento e allestimento delle mostre, a me invece interessava e divertiva poter avere completamente carta bianca sulla creazione di un programma/progetto che si ponesse a metà strada fra “rassegna impegnata” e saggio editoriale; molti dei temi/focus affrontati in questa rassegna sono tematiche a me vicine e che si ritrovano in diversi miei lavori, inoltre la proposta della progettazione della rassegna, da parte di Chiara, è arrivata mentre stavo finendo le riprese del mio primo film documentario.
Semplicemente i progetti curatoriali di cui ogni tanto mi faccio promotore sono parte della mia ricerca e della mia vita.
Angela Madesani
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati