Grape Juice e le mille foto di Istanbul. Flavio Favelli presenta Flavio Favelli
Inaugura venerdì 16 maggio la mostra di Flavio Favelli a Istanbul. Dopo una residenza in città, presso l’Ambasciata italiana. Quattro progetti sul filo della memoria, tra l’Italia e il Bosforo di Orhan Pamuk. Qui trovate - in esclusiva per Artribune - il racconto dello stesso Favelli, dal viaggio aereo alla pronuncia della Coca-Cola.
Mi allaccio le cinture e sfoglio Skylife, la rivista della compagnia. Trovo a doppia pagina una pubblicità, si dice reklam in turco: “Widen your World / Turkish Airlines”. Le ultime vicende, però, hanno poco a che fare con larghi orizzonti o forse è la solita legge dei paesi Extra, dove le contraddizioni sono sempre forti.
Bevo la spremuta d’arancia fresca, mentre la hostess mi porge il menù, anche se siamo in economica. “Above selections do not contain pork product”.
Prima di partire ho cenato Da Amerigo, un ristorante vicino casa che, al di là degli alti voti nelle guide, amo molto. Ho preso un nuovo piatto proprio del 2014. Si chiama Mortadella Zero: sono fette di mortadella (su crescenta calda) fatta con le parti migliori del maiale e non con quelle che si usano di solito, come vorrebbe la tradizione. Una mortadella ridiscussa, una post-mortadella, forse il suo totale superamento o completo annientamento; è già un’altra cosa Mortadella Zero. Il risultato è eccellente, è quasi un nuovo sapore.
Abito in Emilia, dove il maiale ha un posto fondamentale nella vita e nella storia. A Castelnuovo Rangone in piazza c’è la statua in bronzo di un suino, non di Vittorio Emanuele.
Above selections do not contain pork product. Un colpo al cerchio e uno alla botte: a bordo si servono comunque vino, birra e Spirits.
Sono stato a Istanbul la prima volta a metà degli Anni Ottanta, avevo 16 anni. Pochi sapevano del Vicino Oriente e soprattutto dell’Islam che, prima della Guerra del Golfo del 1990, era sconosciuto.
Sono qui per fare una residenza d’artista. La residenza chiede all’artista di dare il proprio sguardo al contesto, un contesto, questo, molto particolare, perché qui siamo in un altro mondo, un po’ alleato e un po’ nemico. Tanto per essere chiari, un periodico patinato d’arte e cultura, con una prefazione del sindaco di Istanbul, si chiama 1453, l’anno della conquista per loro, l’anno della perdita per noi, anche se non si sa bene chi siano loro e chi siamo noi. Risiedo quindi a Palazzo Venezia, residenza dell’Ambasciatore d’Italia, e ho il compito di continuare la grande tradizione di scambio fra Occidente e (Vicino) Oriente; per questo ho firmato un contratto con l’Istituto Italiano di Cultura. Le opere, frutto del lavoro e dell’esperienza di questo periodo, saranno esposte alla Scuola Greca di Galata, affascinante, commovente e sinistro edificio, ex sede della scorsa Biennale d’Arte di Istanbul. Di fronte c’è una chiesa armena. Proprio il settembre scorso un critico italiano mi disse che una sua amica artista turca da mesi non stava più dipingendo. “Che faccio? Che arte si può fare oggi in Turchia?”. Le ultime vicende di piazza Taksim e del Parco Gezi hanno lasciato il segno.
Nello spazio Arter di Istiklal c’è una mostra di Marc Quinn. La vetrina che dà sulla strada è occupata da un’enorme conchiglia di bronzo lucidata a oro, della serie The Archeology of Art, alta più di due metri. Molte persone si fermano e si fotografano davanti all’opera che luccica e che riflette i grandi lampadari, anch’essi luccicanti, dei ristoranti e self-service sulla strada. L’oro, da queste parti, fa ancora la sua figura.
Giorni fa, in una conferenza, ho sentito parlare Elif Shafik: “In Turchia diciamo spesso ‘noi e gli altri’, ma l’artista non può fare questa discriminazione”. Già, l’artista non è né noi né loro.
Alla galleria NON, presente all’ultima fiera italiana di Miart, ha aperto Extrastruggle con la mostra There is no God in the Sky, only birds. Alcune opere contengono foto in bianco e nero di ritratti che, più che di piacere e ricordo, sembrano da passaporto o da cimitero. Queste foto a mezzo busto, a ben vedere, sono forse uno dei segni più caratteristici della città, dopo le Grandi Moschee e i due Ponti sul Bosforo che si assomigliano – e sono del tipo della gomma di Brooklyn. Queste foto si trovano dappertutto, sono come le cartoline delle réclame, anche se sono vere, sono tutte originali e in passato hanno avuto valore. Istanbul di Orhan Pamuk è piena di queste foto. Sono foto, alla fine, tristi, che ricordano un passato che qui sgomita più che da altre parti e su cui non è semplice parlare. Si trovano anche da noi, soprattutto nei mercati del nord Italia, ma di solito sono in album o comunque ordinate, come in un archivio. Qui invece sono sparse, buttate nelle scatole, in casse e ceste o gettate su una coperta o su un tavolo, come le carte da gioco, quasi a marcare l’abissale differenza fra due mondi, quello della persona e quello del gruppo. Questo mare di figurine senza album, questo desiderio delle immagini tradisce la voglia d’Europa, il desiderio di staccarsi da un mondo oramai squagliato; già gli ultimi Califfi si facevano fotografare, prima che da noi la tv trasmettesse la benedizione del Papa.
L’ultima foto del libro Istanbul di Pamuk è un notturno con un’insegna al neon del Bar Londra. Ho sempre pensato alle insegne, ai neon, alle scritte che da sempre affollano il paesaggio da quando sono nato, come a qualcosa di importante, come una specie di onda lunga della profezia: il Verbo, assai stanco dopo duemila anni, ha abdicato per altre forme e parole. Non c’è quasi memoria, tranne qualche cartolina, dei notturni urbani italiani degli Anni Sessanta e Settanta, vere Las Vegas nazionali, con infinite scritte di nomi, prodotti, loghi e disegni luminosi. Anche qui le insegne in quegli anni danzavano con i caratteri arabi che servivano l’ottomano. Qui si vive in tanti tempi, siamo nel 1435 dall’Egira, 561 anni dalla Conquista, 92 anni dalla Repubblica, 50 esatti dalla Coca Cola in Turchia, che per la prima volta sulle lattine ha cambiato il nome in Koka Kola: per tutto questo tempo i turchi hanno letto Giogia Giola.
Qui, come da noi e soprattutto nel nostro Sud, sta arrivando la luce elettronica-colorata e anche il led. Credo che la sua fortuna, oltre al basso costo, sia nel gusto, per certi versi simile, dei turchi e dei meridionali. Sia qui che là ha più successo, forse perché è più luccicante e si abbina a un gusto generale mediterraneo che ha a che fare col moresco. O forse perché sia i turchi sia i meridionali, da qualche parte, hanno un certo senso di arretratezza e per compensarla, appena c’è qualche novità (a basso costo), si buttano senza rete. La luce elettronica e colorata, come le paillettes e i brillantini, brilla e riflette solo la luce.
A Palermo sono rimasti forse in due, oggi, che sanno piegare a caldo il tubo di vetro per fare le insegne al neon.
A Karakoy c’è un’antica zona commerciale dove vendono ferramenta, bulloneria, viti, chiodi, catene, ancore. In una specie di cortile interno, forse un antico caravanserraglio a vari piani con gli archi in mattoni, si affacciano delle botteghine annerite, un alveare composto: c’è chi lavora anche nel portico, chi salda, chi smeriglia, sacchi di ferri vari, minuterie, rondelle, tanti attrezzi personali appesi a botteghe personali, botteghe intime, botteghe domestiche, non manca mai nulla, di sicuro non ti diranno mai quello che da noi ti dicono sempre più spesso: “Non lo fanno più”.
C’è un unico portone principale che segna l’entrata di questo mondo che evoca il Medio Evo. Chi mi accompagna, Murat, mi dice che un giorno, non lontano, sarà un luogo di nuovi caffè e ristoranti.
È ingenuo il desiderio del visitatore occidentale, che si lamenta per i cambiamenti, che vuole la Istanbul di una volta, mentre il popolo della Repubblica Turca guarda avanti. In realtà sotto questa bandiera, forse la più elegante e più bella di tutte le bandiere del mondo, ci sono tante cose, per fortuna troppe, come nelle loro vetrine dei negozi di dolci.
Certa frutta, come l’uva, qui, sembra speciale, è più carnosa, più brillante, l’uva da queste parti diventa sultanina, che ricorda il Sultano. Diventa anche succo, mentre da noi o è vino, col il suo infinito universo, o è Sangue di Cristo.
La prima volta che bevvi del succo d’uva fu perché mia madre, grande cacciatrice di novità, lo comprò in un emporio del centro di Bologna, quando ancora non si andava al supermercato. Era una strana specialità della Jugoslavia, in un cartone colorato, ma mi sembrò subito una forzatura, anche se non sapevo che nella Bibbia si parla solo di vino, avevo già chiare idee conservatrici, che ancora oggi condivido, sul cibo, la cucina, i tessuti, i pellami e le marche in generale. Fui corrotto, però, quando conobbi la Fanta al succo d’uva, gassata. Fui ammaliato dall’immagine della lattina con le strisce viola e lilla, al posto di quelle tradizionali arancio chiaro e scuro. I toni simili di colore vicini mi hanno sempre attirato.
Grape Juice perché un succo di frutta non fa male a nessuno. Ma anche se è regolare, traccia comunque una specie di labile confine fra mondi diversi, fra noi e loro. Per noi il succo d’uva non esiste, è solo un artificio, è una forzatura. Grape Juice è un succo metafisico che sta in equilibrio fra vari mondi, un confine forse solo psicologico.
Flavio Favelli
Istanbul // fino al 14 giugno 2014
Flavio Favelli – Grape Juice
a cura di Vittorio Urbani
Anteprima #3, progetto di Cristina Cobianchi – AlbumArte
GALATA RUM OKULU
Kemeraltı Cad. 25
[email protected]
www.albumarte.org
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati