La gloria del fallimento
C’è un italiano, un carattere italico che potrebbe sembrare pericolosamente imparentato con l’autocommiserazione. Ma è ben altra cosa. È una propensione al guizzo, al colpo di coda risoluto che segna tutta la nostra storia. Che è fatta di crisi continue, con qualche sprazzo propositivo.
Il fascino dell’italiano risiede proprio in questa attitudine ironica (e autoironica) nei confronti della realtà. Un’attitudine che non ha nulla a che vedere con il ridicolo in cui questo Paese si è immerso con voluttà e pervicacia nel corso degli ultimi trent’anni (“È lui o non è lui, è lui o non è lui? Cerrrto che è lui!!!”, recita implacabile Ezio Greggio quando, nella scena finale di Yuppies – I giovani di successo, a Cortina D’Ampezzo appare in cielo l’elicottero dell’Avvocato) e che invece molto probabilmente rappresenta l’eredità diretta dell’ironia rinascimentale, fortemente connessa con l’idea della fine e con la critica dell’esistente.
È il discendente legittimo degli italiani che seducevano e che seducono gli altri e il mondo con il loro fare sornione; che considerano seriamente gli eventi e il loro rapporto di causa-effetto senza mai prendersi troppo sul serio: Marcello che invidia l’intellettuale Steiner e che, mentre sente di fallire nel suo essere romanziere, sta componendo con la sua esistenza il più grande romanzo italiano sul fallimento; Marcello-Guido che, in 8½ [nella foto, una immagine tratta dal film del 1963], cercando di sfuggire alle proprie responsabilità “narrative” si inoltra in una forma di narrazione altra, diversa e sconosciuta (e parallelamente Federico-Guido da lì in poi si separa dal se stesso precedente, devia e scava sempre più a fondo in un percorso non-lineare fatto di memoria e di montaggi); Nino Manfredi in Operazione San Gennaro, Per grazia ricevuta, C’eravamo tanto amati e Spaghetti House; Vittorio De Sica che gestisce la difficile relazione tra Neorealismo e melodramma, tra se stesso e il gioco d’azzardo.
Il modello identitario è quello dell’italiano che, con strumenti molto spesso scarsi e inadeguati, riesce ad approntare un’indagine sorprendente per profondità, per acume dolce e implacabile, perché si nutre di amore per la vita e per l’esperienza.
Ennio Flaiano alle prese con la sceneggiatura-assemblaggio de La dolce vita. Cesare Zavattini e il racconto della sua Luzzara in Un paese. Curzio Malaparte e la cornice “pestilenziale” di Kaputt. Mario Bava e la costruzione di un intero pianeta, durante le riprese di Terrore nello spazio, praticamente con un’unica roccia di polistirolo spostata a mano e inquadrata da mille diverse angolazioni. Sergio Leone e la creazione di un West alternativo che riflette e mima epicamente la Resistenza italiana contro l’occupazione nazista in Giù la testa.
E proprio quando sembra che questo italiano spericolato, furbo e chiacchierone stia per perdere definitivamente l’equilibrio e crollare, precipitando nel buco nero del disastro e dell’autocommiserazione, ecco che ridacchiando assesta un colpo da maestro al cuore stesso della realtà.
Nella storia d’Italia degli ultimi otto-nove secoli ci sono stati innumerevoli momenti di crisi, devastazione, declino, smarrimento; anzi, se proprio la vogliamo dire tutta, sono i momenti “ricostruttivi” (e propositivi: Rinascimento, Risorgimento, Neorealismo) a costituire le eccezioni alla regola. Ma la nostra regola è trovarci in un disastro che ogni volta sembra senza precedenti e irrimediabile. Il nostro è il posto più devastato della storia, materialmente e psichicamente.
Il Manierismo e il Barocco nascono da traumi collettivi giganteschi (1527). Due mesi fa sono entrato dopo tantissimo tempo a Sant’Ivo alla Sapienza e mi sono accorto – o penso di essermi accorto – di una cosa che non avevo mai colto. Sant’Ivo (forse la più bella architettura di tutti i tempi) dall’esterno, dalla strada non lascia sospettare nulla di ciò che c’è dentro. Noi ci troviamo davanti a un muro rossastro, piatto, anonimo, il più anonimo che si possa immaginare; all’interno, Borromini ha costruito questo spazio fantastico, questo spettacolo, questa incredibile simulazione di pietra. Che rivela una sorta di “gloria del fallimento” molto italiana, che non ha assolutamente nulla a che vedere con il compiacimento del declino e con l’autocommiserazione. Una gloria che attraversa i secoli, gli stili e le forme espressive (è la stessa di 8½, per intenderci): “Quello è lo spazio pubblico, lo spazio della strada, lo spazio della politica in cui io artista non posso intervenire (perché so quello che mi succederà se lo faccio, conosco le conseguenze); però, all’interno di questo spazio separato, di questa sorta di eterotopia che è lo spazio della cultura e dell’arte, accetto le condizioni del fallimento e vi faccio vedere quello che è possibile costruire per voi”.
In questo c’è una parte importante, segreta e costante dell’identità italiana, da cui dovremmo ripartire.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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