Mercoledì Italo/Americano#2: sull’estetica della vulnerabilità
Una serie di brevi ragionamenti/corrispondenze del curatore Alessandro Facente scritti durante la sua permanenza a New York. Commissionati da Giacinto Di Pietrantonio come parte delle discussioni settimanali delle lezioni dei suoi corsi all’Accademia di Brera. La seconda puntata.
A un anno dall’uragano Sandy, New York si domanda, con le parole dell’ormai ex sindaco Bloomberg, se oggi la città sia in grado resistere a un’altra catastrofe del genere. Interamente incentrato sulla vicenda, anche il numero di ottobre del Brooklyn Rail – celebre freepress mensile di arte, cultura e politica della città – si pone lo stesso interrogativo, focalizzando l’attenzione sul concetto di vulnerabilità filtrato dai punti di vista di varie penne coinvolte nella sezione Critic’s page. I contributi vengono formulati su indicazione di Thyrza Nichols Goodeve (Brooklyn Rail associate art editor), che chiede loro di raccontare un’esperienza con un’opera d’arte che li ha resi fragili e in qualche modo vulnerabili. Quello di Mark Dery (letterato e critico culturale americano), On the aesthetic of vulnerability, e quello di Jerry Saltz (critico d’arte americano), Radical Vulnerability, mi colpiscono per l’approccio apparentemente opposto con cui affrontano la medesima questione. Dery esclude a priori l’ipotesi che un’opera d’arte lo abbia mai spinto a ridiscutere certe convinzioni personali fondamentali, o a disinnescare, addirittura, i propri meccanismi di difesa, per quanto essa solleciti visioni epistemologiche, ontologiche, culturali e filosofiche. Lo ha fatto invece il cancro, in quanto esperienza che lo ha tragicamente coinvolto e “quasi mangiato vivo”.
Sebbene a questa informazione personale dedichi otto parole periferiche all’inizio dell’articolo – “The cancer that nearly ate me alive, yes” -, esse mantengono una centralità, perché rompono l’apparente cinismo delle sue affermazioni regalando un accenno di umanità, sufficiente a specificare dov’è che l’esperienza visiva può arrivare, su quali fragilità può intervenire e in che maniera. Otto parole, insomma, che segnano un confine molto netto e, serrandosi rapidamente, riportano il linguaggio ai toni lucidi di Dery, che alla fine riconosce all’arte un ruolo di rottura sociale sin dalle violente estetiche avanguardiste, ovvero quando abbatteva le fondamenta di una visione borghese del mondo. Diverso quindi dall’equivoco di un’arte “New Age” – così la definisce – che mette in crisi la nostra integrità per ricostruirne un’altra migliore.
Di contro, un più appassionato Jerry Saltz, leggendo una biografia di Richard Ellmann su Oscar Wilde, fa esperienza di una serie di dettagli riguardanti la crudele detenzione del celebre scrittore inglese. Attraverso la lettura di questi dettagli viene spinto a considerare “spezzate”, quelle società che a loro volta “spezzano” le persone tramite la prigione. Il critico, toccato da questa lettura, porta la questione biografica dalla vulnerabilità violata di Wilde a un livello più universale, un livello riguardante la vulnerabilità di certi comportamenti della società in generale, facendo del momento dell’indignazione quello in cui diventa una responsabilità esprimere un’opinione. Questo è ciò che lui definisce Radical Vulnerability, ovvero la responsabilità che ci si assume nel formulare un punto di vista su qualcosa sebbene si stiano pensando cose “che non si vogliono pensare” (“I am thinking things I don’t want to think”). L’obiettivo è trovare in questo qualcosa un substrato multiplo che ci aiuti a conoscere a fondo gli altri, l’umanità in generale, comprese le visioni che la storia – passata e contemporanea – proietta, positivamente o negativamente, sul mondo, o viceversa, incluse quelle delle avanguardie sottolineate da Dery.
Per quanto i toni assunti possano dunque far credere che le due posizioni divergano, esse invece convergono, facendoci intuire nella sostanza che il potere di renderci fragili sta in ciò che comprendiamo e nella posizione che occupiamo dall’esperienza lucidamente critica (non emotiva) che attiviamo su qualunque stimolo intersechi il nostro sguardo, e che alla fine non ha più a che fare con l’esperienza visiva – o letteraria – in sé. Ha a che fare però con la visione del mondo che formuliamo, la stessa che Dery vede attraverso gli occhi dalle avanguardie, e Saltz attraverso quelli di Wilde, o quella che, senza intermediari, essi ora guardano con Sandy.
Le celebrazioni nazionali diventano quindi dispositivi visivi collettivi attraverso cui gli americani ritornano con più distanza a quelle tragedie. Ma ci tornano con una profondità più pronunciata, conquistata, dalle ferite che quella vicenda ha solcato nell’archeologia delle loro coscienze, creando i nuovi multipli substrati su quella piattaforma di cui parlavamo la settimana scorsa, dentro cui oggi trincerarsi e trovare lì le lucide risposte a quella domanda che ci si pone a un anno di distanza.
Alessandro Facente
Questa corrispondenza di Alessandro Facente arrivò nei giorni in cui un violento urgano-alluvione si stava abbattendo sulla Sardegna e quindi prendeva un ulteriore senso di attualità per noi italiani, che in quelle ore stavamo vivendo, ancora una volta, il dramma in cui una parte del nostro Bel Paese veniva violentato dalla forza natura che non trovava argini a causa di una lunga serie di politiche ambientali errate, o addirittura non esistenti. Quindi l’articolo non poteva non avere anche un impatto sull’attualità e incidere ancor più sulla domanda in cui ci si chiede se l’opera d’arte abbia una relazione con gli eventi sociali. Comunque, la questione non viene posta solo sul terreno dell’educazione civica, ma andando oltre la contingenza finisce per evidenziare l’eterna domanda se l’arte abbia a che fare o no – e come -con la realtà, o meglio ancora se abbia o no incidenza su di essa. Certo è che se continuiamo a porcela è perché non abbiamo ancora saputo dare una risposta. Per esempio da noi ci sono artisti che pur appartenenti alla stessa area espressiva e a volte utilizzando materiali simili hanno sulla questione posizioni opposte. Penso a due monumenti dell’arte Povera come Giulio Paolini e Michelangelo Pistoletto: il primo nega a ogni occasione che l’arte possa avere una qualche influenza sulla società, mentre il secondo non fa mistero del contrario, anche se poi alcuni lavori tradiscono le intenzioni. Prendiamo ad esempio Giovane che guarda Lorenzo Lotto, “ricostruzione nello spazio e nel tempo del punto occupato dall’autore (1505) e (ora) dall’osservatore di questo quadro”, 1967, di Paolini. Qui il titolo afferma la responsabilità dello spettatore e quindi della società nell’attribuire un senso all’opera, e questa posizione “interattiva” è presente in tutto il corpus dell’opera paoliniana. Va da se che la società alla fine qualche ruolo deve averlo e che senza la società l’arte si fa, ma non si ha.
Giacinto Di Pietrantonio
http://www.brooklynrail.org/2013/10/criticspage/radical-vulnerability
http://www.brooklynrail.org/2013/10/criticspage/on-the-aesthetic-of-vulnerability
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