Nuovi paesaggi urbani (VIII): le “zone” in China Miéville – parte II
Torniamo sul concetto di “zona” secondo lo scrittore China Miéville. Stavolta, ci concentriamo sul romanzo “The City and the City”, la storia di un omicidi che si svolge tra due città. Una complessa indagine speculativa sulla complessità della vita urbana.
The City and The City si apre con un omicidio. L’assassinio di una studentessa americana vede l’ispettore Tyador Borlù coinvolto in un indagine che diventa via via più intricata, che si risolve in un vortice crescente di complessità e scoperta. Il corpo della ragazza è stato ritrovato a Beszel ma lentamente si insinua l’ipotesi e il sospetto che sia stata ammazzata ad Ul Qoma. L’indagine diventa sempre più scottante: forse si tratta di un complotto politico, forse esiste una terza, leggendaria città che potrebbe essere lì da sempre senza aver mai rivelato la sua esistenza.
Il cuore del romanzo è originale e affascinante, rivela un battito asincrono, quello delle due città in cui si svolge l’azione: Besźel e Ul Qoma. Situate in una non meglio precisata regione del sud-est europeo, Beszel e Ul Qoma sono due città, separate e unite allo stesso tempo. Due città sovrapposte, che condividono lo stesso spazio, ognuna con le proprie strade, i propri palazzi, i propri cittadini, la propria storia, la propria identità; differenti dalla gastronomia alla forma di governo, dalla lingua all’architettura. Potrebbe trattarsi di un’anomalia spazio-temporale, di un errore nella creazione, di una scissione avvenuta ad un certo punto nella storia.
Nonostante questo, Beszel e Ul Qoma si sovrappongono e condividono la morfologia urbana in cui si sono evolute. Esse sono strettamente intrecciate: alcune aree risultano essere “totali”, appartenenti esclusivamente ad una città o all’altra, ma alcune zone sono “tratteggiate”, luoghi cioè in cui le due città si intersezionano. I cittadini delle due città vivono fianco a fianco, ma secoli di storia separata li hanno portati a diventare maestri dell’arte di disvedere, rendendo di fatto l’altra città, i suoi abitanti, la sua cultura e le sue costruzioni, invisibili a chi dovesse per caso posare lo sguardo sul suolo straniero. Per un abitante di una delle due città, il reato più grave è dunque quello di vedere un abitante dell’altra: sono due mondi vicinissimi, eppure incomunicabili, e la punizione per chi trasgredisce è certa e impietosa.
A dare coerenza all’invenzione di Miéville e a rendere di fatto tassativo l’obbligo a disvedere, c’è una terza entità che sorveglia il comportamento di tutti i residenti: la Violazione, un ente apparentemente inconoscibile, dotato di misteriosi poteri di intervento e punizione. Questa separazione viene imposta dai suoi misteriosi e “invisibili” agenti, dotati di un potere illimitato e sui legis che provoca un terrore profondo e reverenziale. Così tutti sono abituati fin dalla nascita all’usanza dell’unsee, a sfuggire ogni forma di contatto con gli altri che pure sono lì, sotto i loro occhi e a portata di mano. Non solo la vista, anche tutti gli altri sensi sono coinvolti nell’ostinata negazione della città-stato vicina; si tratta sostanzialmente di una cecità sensoriale. Gli abitanti devono per cui evitare di percepire anche i suoni e gli odori “stranieri”.
Questa separazione sembra una condizione usuale per i cittadini delle due città, anche se non sempre è vissuta senza traumi: oltre ai quotidiani disagi e protub da evitare, ogni città possiede sia un gruppo di nazionalisti, i quali credono che l’intera area geografica debba essere di una sola città a spese dell’altra, sia un gruppo di unificazionisti, che credono che le due città debbano essere unite (o riunite), mantenendo le caratteristiche di ciascuna. Vedere e disvedere. Ingressi ed egressi. Camminare e vestirsi in modi differenti dentro geografie minacciose, incomprensibili ma parallele, anzi, sovrapposte. Diverse lingue e diversi slang. Colori permessi e vietati. Essere educati a non guardare e a temere i bambini, considerati “sacche di infezione” con i loro occhi non “educati”: “Passeggiavo spesso per Majdlyna. Esistono dei punti in cui anche i singoli alberi sono intersezionati, dove i bambini di Ul Qoma e quelli di Beszel sgambettano praticamente fianco a fianco, e ognuno obbedisce agli ordini sussurrati dei genitori di non guardare gli altri. I bambini sono sacche di infezione. Era proprio quello che faceva propagare le malattie. L’epidemiologia era sempre una faccenda complicata, sia qui che in patria” (La Città e La Città, Fanucci 2011, pp. 202-203).
È attraverso questo complesso universo sociale che si dispiega la geografia tortuosa delle due (o forse tre) città. Comunque sia, la storia all’origine di questa peculiare convivenza non risulta chiara; per usare le parole dell’ispettore Borlù: “Forse è Beszel che abbiamo costruito, forse no, mentre forse altri hanno costruito Ul Qoma sulle stesse ossa. Magari c’era qualcosa, allora, che in seguito si separò sulle rovine, o magari la nostra ancestrale Beszel non aveva ancora incontrato e non si era altezzosamente intrecciata con il suo vicino. Non sono uno studioso della Frattura, ma se anche lo fossi lo ignorerei ugualmente” (ivi, p. 49).
Miéville in questo libro tenta una difficile indagine speculativa sulla complessità della vita urbana: grazie agli strumenti della narrativa di genere porta all’eccesso le particolarità ambientali, in cui colloca la sua storia per evidenziare come i comportamenti individuali siano vincolati alle convenzioni sociali e alla deriva storica che le sottende, riflettendo al contempo su controllo, sorveglianza e punizione, sulla gestione del potere, su rivoluzione ed educazione. L’autore gioca con l’incongruenza topologica di questa doppia città affrontandone i vari aspetti, dai più quotidiani (come sopravvivere al traffico urbano), ai più esoterici, riuscendo nell’arduo compito di rendere credibile agli occhi del lettore la realtà impossibile del romanzo. Ma Miéville non si ferma alla descrizione degli aspetti pratici della vita in città e riflette sulle implicazioni politiche e sociali di una, anzi due, comunità che si trovano a dover convivere con le solite divisioni, di ceto, religione ed etnia, all’interno di una frattura che riflette, amplificando, tutte le tensioni che una situazione di convivenza coatta porta con sé. Esemplari in questo senso sono le pagine che l’autore dedica alle organizzazioni rivoluzionarie di vario colore e ai loro tentativi di unificazione egualitaria o di dominio politico dell’entità Besźel-Ul Qoma.
Nonostante ciò il libro non è una parabola, anche se Miéville ha dichiarato in un’intervista a Pulp Magazine: “Con questo romanzo ho sempre avuto l’intenzione non tanto di inventare una logica sociale radicalmente nuova e diversa, ma di esagerare la logica sociale che ci circonda continuamente estrapolandola appena un po’ oltre la sua realtà quotidiana”.
Francesca Rosini
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