Nuovo: la crisi oggi e ieri
L’articolo di questa settimana della rubrica Inpratica assume una forma altalenante. I testi in tondo sono quelli di Christian Caliandro, quelli in corsivo sono firmati da Ungaretti, de Chirico, Marinetti, Montale, Svevo… E la crisi si rispecchia fra l’oggi e l’inizio del secolo scorso.
La crisi socio-economica nel mondo culturale italiano coincide sempre più con il paradigma della desertificazione. In particolare, alcune tra le maggiori istituzioni dell’arte contemporanea vivono una fase di particolare debolezza e fragilità, tra disorientamento gestionale (l’impossibilità apparente di una “manutenzione del presente”) e assenza di una visione lunga che tenga conto dei mutamenti in atto e reagisca ad essi.
Nella città rumorosa la catastrofe che passa. Egli era venuto con il suo sguardo doloroso. Mangiava lentamente un dolce così tenero e così dolce che si sarebbe detto che stesse mangiando il suo cuore. Aveva gli occhi molto distanti l’uno dall’altro.
Di quali processi più profondi sono le manifestazioni e i sintomi questi crolli che costellano il nostro tempo? Certamente, il collasso istituzionale rivela il nostro essere situati in una “soglia” (è questo il senso originario di crisi): già ben oltre la fine di un’epoca, e sul limite di quella nuova che inizia di cui non distinguiamo ancora perfettamente i confini, sebbene alcune caratteristiche strutturali siano già percepibili.
Tu sai quanto io sia profondamente umano, ma in Italia occorre un’energia sempre pronta contro quella schifosa tendenza che spinge tutti a mettersi comodamente a tavola sul corpo di un artista morto. Dobbiamo dare l’esempio. I vivi, i vivi soltanto sono sacri. Un’arte severa e cerebrale, ascetica e lirica che dalla magna terra ove nasce succhia lo spirito migliore, quello spirito che alcuni grandi costruttori italiani (non parlo solo di pittori) seppero stampare nell’opera loro come un bollo indelebile.
Vito Acconci, protagonista della scena artistica degli Anni Sessanta e Settanta, ha dichiarato di recente di essere convinto che l’arte “abbia perduto il suo ruolo all’interno della società”. Infatti, rispetto ad altre discipline (come, a suo parere, l’architettura e il design), sembra aver smarrito la capacità di influenzare direttamente la vita delle persone e la realtà.
Ogni inquietudine s’avvia fatalmente a una calma con cui quella sostanza stessa che provocò l’urto inquietante si spiana e si distende in tutta la sua verità: è il processo naturale che conduce dal barbarismo al classico.
Sintetizzando al massimo, è possibile riconoscere una serie di processi e di trasformazioni che hanno riguardato le produzioni artistiche: la lunga sequenza che collega il ready made di Duchamp a Warhol e alla concentrazione estrema, esclusiva sul “processo” nelle elaborazioni dei baby-boomer occidentali, fino all’incontro di queste definizioni con il mercato dell’arte (che si è istituzionalizzato, così come noi lo conosciamo, esattamente tra la fine degli Anni Sessanta e l’inizio degli Anni Settanta tra gallerie, fiere e biennali, per poi assumere la sua apparenza attuale lungo gli Anni Novanta) ha lasciato pressoché esausto il terreno di ciò che è arte.
A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio. Noi pensiamo anche a ciò che non si vede: ma se ci si attenesse a quello che si vede bisognerebbe confessare che la guerra è stata invano. Privi di interessi reali, distinti, necessari gli Italiani chiedono una disciplina e uno Stato forte. Ma è difficile pensare Cesare senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile. Ma, più che ci pensavo, più originale trovavo la vita. E non occorreva mica venire dal di fuori per vederla messa insieme in un modo tanto bizzarro. Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vita si è aspettato, per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse l’uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene.
È ormai divenuta una delle retoriche più resistenti del presente quella che fa riferimento in maniera ossessiva allo scollamento e alla distanza tra il “sistema dell’arte” globale (definizione che, nell’attimo stesso della sua onnipresenza, rivela la capacità di oscurare ogni altra interpretazione e punto di vista sull’arte: ma non è affatto stato sempre così, e anche questo concetto è un risultato storico, un’interpretazione) e le persone, il mondo, ciò-che-esiste-là-fuori.
E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Eppure, se questa retorica è così insistente, così pervasiva, al netto delle semplificazioni vuol dire che qualcosa di profondamente storto essa lo indica e lo riconosce.
Di quale partito, di quali uomini fidarsi? Tutti gl’idoli che egli aveva venerati avevano rivelato le loro magagne, in tutti aveva trovato presunzione, ignoranza, vanità, intransigenza, difetti e vizii insanabili. Egli rideva della sua antica ricerca d’un uomo capace di salvare la nazione: nessuno poteva nulla salvare. L’Italia, e come ogni altro paese del mondo, e il mondo intero, erano stati salvati e perduti, e risalvati e riperduti, per fatalità inevitabili, secondo leggi ignote. Né l’apparente salvazione era realmente uno stato prospero e felice, né quella che si giudicava rovina era veramente tale.
Christian Caliandro
I testi sono tratti da:
Giuseppe Ungaretti, Veglia. Cima Quattro il 23 dicembre 1915, da Il porto sepolto, 1916
Giorgio de Chirico, Il meccanismo del pensiero, Einaudi 1985
Filippo Tommaso Marinetti, lettera a Pratella, dicembre 1916
Giorgio de Chirico, in “Gazzetta ferrarese”, 18 giugno 1918
Alberto Savinio, “Anadioménon”. Princìpi di valutazione dell’arte contemporanea, “Valori Plastici”, I, n. 4-5, Roma, aprile-maggio 1919
Piero Gobetti, Elogio della ghigliottina, “La Rivoluzione Liberale”, 1, 23 novembre 1922
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923
Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto, in Ossi di seppia, 1925
Federico De Roberto, L’Imperio, 1929
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