Prendere lo studio a pallonate. Intervista a New York con Andrea Mastrovito
Siamo andati a trovare Andrea Mastrovito nella sua residenza newyorchese dell'ISCP. E ci siamo fatti raccontare perché sta sporcando un intero palazzo di grafite, giocandoci dentro a pallone. Con la scusa di dare una possibilità a dei ragazzi difficili…
Descrivici in breve il progetto Kickstarting ma soprattutto cos’ha di importante per te da un punto di vista figurativo e del processo.
Nei mesi scorsi ho trovato questo enorme cortile abbandonato, proprietà di una parrocchia, nel centro di Bushwick. Allora – in collaborazione con la parrocchia stessa, la scuola del quartiere, altre organizzazioni locali, l’ISCP e il Drawing Center – ho organizzato l’intero progetto: per circa un mese ho “insegnato” storia dell’arte ai ragazzi del quartiere, più che altro cercando di far loro capire che si possono realizzare cose grandissime con pochissimo, con gesti davvero semplici. Ho chiesto cosa amano e di disegnarlo.
A partire da questi disegni stiamo realizzando gli stencil che copriranno i muri del grande cortile. E poi – tempo permettendo – sabato 17 maggio e domenica 18, dopo aver cosparso il selciato di polvere di tempera, giocheremo a pallone per due giorni interi, e i segni delle pallonate sui muri, grazie alla polvere e agli stencil, daranno forma a un grandissimo wall drawing.
Tolti gli stencil, sarà passato un fissativo che preservi l’opera e, se tutto va bene (quando si ha a che fare con diverse istituzioni, nulla è mai certo!), in estate questo cortile abbandonato dovrebbe riaprire come nuovo playground per i bambini del quartiere.
La performance è aperta a tutti, banditi i vestiti della domenica, perché ci sarà da sporcarsi e non poco…
Cosa accomuna il nuovo lavoro che hai creato all’ISCP con quello che hai fatto nel recente passato?
Qui all’ISCP, in occasione degli Open Studios, ho voluto fare le prove generali per Kickstarting, ricoprendo tutti i muri con grandi stencil e prendendoli a pallonate per due giorni interi. Morale: ho rotto tutti i faretti dello studio, la polvere di grafite è filtrata giù per il pavimento e ha sporcato i lavori dell’artista che ha lo studio sotto il mio, e inoltre ormai credo mi odino tutti qui all’ISCP perché, oltre al casino delle pallonate, ho sporcato tutti i bagni e i pavimenti della struttura. E la grafite si toglie con grande difficoltà…
Ma ne è valsa la pena: il risultato è davvero sorprendente, e porta con sé le tracce evidenti dell’operazione, anche se, in previsione della performance penso si potrebbe fare ancora meglio, devo ragionarci…
Quel che più mi interessa di Kickstarting non è tanto il risultato finale quanto la performance dei ragazzi, il gesto liberatorio di disegnare giocando. È un concetto che amplia lo “scrivere con la sinistra è disegnare” di Boetti, ne sfonda il “game plan” portandolo su un piano reale, ed è qualcosa che riguarda intimamente la mia ricerca degli ultimi anni: penso che la recente mostra At the End of the Line alla GAMeC di Bergamo ne sia un chiaro esempio.
Al contempo Kickstarting ribadisce l’approccio “partecipativo” di molti dei miei ultimi lavori, approccio che è sempre stato in nuce e che ora si è sviluppato notevolmente (dalla performance del Freddie Mercury Photocopied Tribute Concert del 2010 alla coreografia Le Cinque Giornate al Museo del Novecento 2011, dal bandierone allo stadio del 2013 alla piazza appena terminata a Bergamo nello scorso marzo).
Qual è il consiglio che ti senti di dare a chi cerca di portare il proprio nome e la propria arte all’estero?
Credo che tenere uno stretto rapporto con il sistema dell’arte italiano sia fondamentale. Non fraintendermi: qui a New York, ad esempio, dobbiamo scordarci di quello che siamo e facciamo in Italia. E, pur proseguendo la nostra ricerca, è bene lasciare che esso si impregni dell’aria newyorchese, che è comunque meno stantia di quella meneghina o torinese, ad esempio. Al contempo, però, sarebbe davvero difficile fare tutto ciò senza il supporto sia economico che artistico e culturale italiano: penso che trovare un equilibrio fra l’Italia e l’America sia un’esigenza fondamentale.
Anche perché non scordiamoci che da noi gli artisti, spesso da soli, stanno muovendo situazioni interessantissime: penso a Francesconi, alla Senatore, a Tosatti, a Vascellari a Stampone… Quando ne parlo coi curatori newyorchesi rimangono tutti stupiti.
Anche qui è necessario muovere le cose da soli. Mi spiego: nessuno è venuto a propormi Kickstarting, me lo sono inventato io, e credo che questa sia una strada, un modo d’agire fondamentale per noi artisti, specie noi artisti italiani a New York. È inutile aspettare.
Trovi una relazione fra il tuo lavoro e quello che molti street artist stanno facendo in tutto il mondo con stencil e pareti pubbliche e di grande formato?
Bushwick è piena di graffiti e wall painting incredibili, dipinti egregiamente. Sono bravissimi. Questo progetto si va a inserire in un contesto che parla già quel linguaggio, ma lo fa partendo da un altro livello, cercando nella strada, street appunto, e non nell’arte il suo alfabeto plastico. Un alfabeto fatto di pallonate, appunto: l’utilizzo degli stencil in questo caso è semplicemente accessorio e il grande formato è qualcosa che già appartiene al mio lavoro. Non mi sento molto affine ai grandi street artist, anche se poi non posso non ammirare la potenza espressiva di artisti come Blu. Incredibile.
Come ti ha cambiato l’esperienza di New York e in cosa ti ha arricchito come artista?
New York è una sfida continua e tremenda. Io sono una persona piuttosto armonica, ma qui capita anche a me di avere fortissimi sbalzi di umore: un giorno ti sembra di aver conquistato qualcosa di grandissimo, il giorno dopo ti accorgi di essere un quadretto di un foglio a quadretti, anzi di un quaderno a quadretti.
Senz’altro devo dire che stare qui mi sta facendo riflettere moltissimo sull’approccio diretto ai materiali, senza filtro. Non è solo una moda dell’arte newyorchese degli ultimi anni, è qualcosa che respiri per le strade, qualcosa che sta attaccato addosso alla gente.
Quale dev’essere il fine ultimo di un artista che decide di condividere il proprio punto di vista sul mondo tramite la propria arte? Quali valori ti senti di dover ispirare nelle persone?
Non credo sia portatore di valori. Credo si debba parlare semplicemente di “possibilità”. Quando entro in un museo e vedo un grande capolavoro, penso che quell’opera mi stia dando una possibilità, mi stia dicendo: “Ecco, si può fare anche questo“.
È con questo spirito che sto approcciando i ragazzi del quartiere: pensate che quella zona ha il più alto tasso di abbandono prematuro degli studi di tutti i cinque borough. L’idea di poter dare una possibilità, una chance ad alcuni di questi ragazzi, spiegandogli che tutto è possibile, è alla base dell’intero progetto. E credo sia una delle basi fondanti dell’operato di ogni artista, anche quando non dialoga apertamente col pubblico: la possibilità del nuovo.
In questa esperienza americana hai trovato compagni di viaggio, colleghi, artisti che ti senti di citare e che hanno condiviso con te questo cammino?
Faccio la spola fra l’Italia e l’America da sei anni ormai. Negli ultimi due ho intensificato la permanenza americana e devo dire che ho trovato tanti artisti – e non – coi quali ho instaurato un buon rapporto, da Kiril Kuzmanov ad Andrea Galvani, Francesco Simeti e Ian Tweedy, da Michael Foley ad Alice Schivardi, Olaf Brzeski, Richard Schur, Gabriele Picco e Maria Rapicavoli (che sono qui con me all’ISCP ora), e poi ho avuto la grande fortuna di conoscere uno dei miei idoli musicali.
Sì, perché i miei assistenti anni fa mi fecero scoprire gli Electric Six, e da allora la mattina mi sveglio sempre ascoltandoli. E, da un giorno all’altro, qui a Brooklyn ho conosciuto il cantante, Dick Valentine, un mito, e ora stiamo collaborando. L’altro giorno è venuto all’Open Studios e, chiacchierando del prossimo album, abbiamo giocato a calcio per mezz’ora, ovviamente smerdandoci tutti di grafite…
Come vedi lo stato dell’arte contemporanea in Italia e cosa pensi che occorra fare per varcare i confini e riportare in auge internazionalmente il genio italiano?§
Credo sia triste da dirsi, ma è essenzialmente una questione economica: chi può investire su un artista italiano, seppur bravissimo, se non gli assicura un guadagno, se non gli porta istituzioni, gallerie, collezionisti sani e ricchi? E in Italia è difficile trovarne. Sad but true.
Però noi ci proviamo lo stesso: c’è una folta colonia di artisti italiani a New York, ed è una cosa che non ha precedenti. Vediamo cosa porterà.
Che progetti hai in mente per l’immediato futuro qui a New York, visto che si tratta del tuo ultimo mese di residenza?
Dopo Kickstarting tornerò in Italia per l’estate, e lascerò decantare tutti i contatti newyorchesi ottenuti in questi mesi: ci sono buone cose che devono crescere bene. Lasciamo tempo al semino di morire e germogliare.
Diana Di Nuzzo
http://www.andreamastrovito.com/
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