Un turco, un argentino e un canadese. Al Festival di Cannes è tempo dei primi bilanci
Se il festival dovesse finire oggi, la Palma D’Oro andrebbe al turco Nuri Bilge Ceylan e la miglior regia all’argentino Damián Szifron. Entrambi hanno una fortissima cifra personale. E meriterebbero per i motivi che potete leggere qui sotto…
Nuri Bilge Ceylan è una di quelle personalità che segnano un’epoca; di quella categoria a cui appartengono i Bergman, i Fellini, i Mizoguchi. Si tratta, più che di film, di opere universali, che non diventano mai sorpassate. Winter Sleep dura più di tre ore, ma in sala nessuno ha accennato a distrarsi. In questo cinema da camera, con dialoghi che hanno preso l’inclinazione teatrale, con tempi cechoviani e paesaggi d’immensa poesia, tutti cercano il loro posto nel mondo. Nemmeno il protagonista ci riesce, ma almeno ci prova. Prova a resistere e a reagire, mentre gli altri pieni di livore stanno a rinfacciargli la sua natura soffocante. Aydin non è autoritario, ma conosce abbastanza il mondo per ritirarsi a vita privata nella sua fortezza in Cappadocia. E mentre la sorella appena divorziata si aggira per casa senza meta accusando il fratello, i poveri si lamentano di essere sfortunati, qualcuno cerca di organizzare una beneficienza per lavarsi la coscienza, tutto sembra davvero com’è nella vita. Complesso e semplicemente incomprensibile. La capacità di giostrarsi in questa esistenza “ingiusta senza ragione”, la capacità di saper godere delle piccole cose senza essere ossessionati dalle proprie debolezze e dai propri fallimenti, in questo film diventano un manuale di vita tra il filosofico e lo shakespeariano, che accarezza con aggraziata tenerezza ed efficacia comunicativa lo spettatore.
Altro timbro per Wild Tales di Damián Szifron. Uno spaccato multisfaccettato della nostra epoca assurda, della burocrazia che soffoca la ragione, dell’ingiustizia, del tradimento e infine dell’amore che su tutto trionfa, ma nel modo più autentico, istintivo e verace. Uomini e donne esasperati dalla maleducazione, dalla prepotenza, che finiscono per oltrepassare la linea della civiltà. Racconti di sopravvivenza nella giungla contemporanea. Tutto diretto con una regia cinica e spietata, ma al tempo stesso leggera e divertente. Un’odissea che ottiene la sua catarsi a suon di risate, giocando sulle coincidenze della vita di tutti i giorni, sui vizi e le virtù dell’uomo comune. E così due novelli sposi fedifraghi finiscono, dopo vendette reciproche, a copulare sulla torta nuziale in un set completamente distrutto da una guerra fisica e verbale.
A tutto questo si oppone, a distanza di anni luce, David Cronenberg, che esce da questa prima metà del festival come il vero sconfitto. Così contemporaneo da essere superato. Vecchio e superficiale nei contenuti, dà prova della sua abilità nella struttura narrativa, ma il suo Maps to The Stars stenta a decollare, si attorciglia su se stesso, su tematiche che riguardano un mondo falso e superficiale. Una realtà che era stata racconta con estrema perizia e ben altri esiti da David Lynch nel 2001 con il disturbante Mulholland Drive. Il potere allucinatorio di Cronenberg sembra qui essere svanito, restano sprazzi di allusioni e vaghi accenni a quello che fu un tempo, neanche una carcassa, ma uno spettro senza consistenza.
I festival sono fatti per le pubbliche relazioni, per il mercato, per la pubblicità e i red carpet glamour. Nell’immediatezza. Poi il tempo passa, le mode cambiano, pochi nomi sopravvivono. Capita ogni tanto il miracolo, in qualche annata fortunata, di un film che diventa patrimonio condiviso dell’umanità. Siamo in quell’annata.
Federica Polidoro
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