Quando un ministro dell’istruzione, della ricerca o della cultura si siede al tavolo del Consiglio dei ministri e chiede investimenti, la sola cosa che ha importanza è se il Primo ministro concederà o meno il denaro. Sì o no. Tutto qua. Sappiamo anche che il Primo ministro (e il ministro dell’economia) concederà il denaro richiesto se e solo se percepirà che le ragioni della cultura (in senso lato) sono comprese e condivise da tutti. Non lo concederà invece se riterrà che i soli beneficiari dell’investimento saranno i professionisti del settore.
Come stiamo in Italia quanto a constituency? Molto male. L’elettorato culturale è una microfrazione della popolazione. Culture popolari e imprenditoriali sono non di rado avverse alla “cultura”. Così pure, per motivi diversi, ampie parti della burocrazia centrale. Dunque? Dunque niente, se non apriamo le nostre menti, poniamo fine alla lamentela rivendicativa e non cambiamo modo di comunicare al di fuori della cerchia. In primo luogo: quali sono le nostre buone ragioni?
Non dobbiamo certo raccontarcela tra di noi. Noi siamo già persuasi che (poniamo) l’“arte contemporanea” meriti attenzione istituzionale. No. Dobbiamo parlare (e convincere) coloro che non la pensano come noi. E che nutrono un ragionevole (o irragionevole) sospetto per gli sciami da vernissage.
La domanda giusta è: perché arte contemporanea, ricerca e innovazione culturale debbono interessare al contribuente, cui intendiamo chiedere risorse? La sola risposta che possiamo dare è: perché un’offerta culturale qualificata accresce opportunità individuali e benessere sociale. Educa alla complessità, al cosmopolitismo o al rispetto dell’ambiente e distacca dalle limitazioni dell’unica cultura familiare o territoriale. Non è difficile astrarsi dal proprio punto di vista narcisistico e corporativo: ma certo l’eventuale istruzione universitaria in storia dell’arte, le chiacchiere curatoriali, la compulsazione di gran parte delle riviste e circa quattro decenni di postmodernismo deiettivo non aiutano ad argomentare in termini pubblici.
Abbiamo bisogno di porre domande semplici e generali e dare risposte altrettanto semplici e generali per ampliare la nostra esile constituency. Per far ciò, dobbiamo in primo luogo riflettere sul rapporto tra “arte contemporanea”, cittadinanza e democrazia.
Michele Dantini
editorialista e saggista
docente di storia dell’arte contemporanea – università del piemonte orientale
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18
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