Goffredo Parise, la sua pittura e l’arte. Una lettera aperta
In un articolo scritto da Elena Stancanelli sull'inserto Domenicale di Repubblica si sostiene che "i capolavori del contemporaneo stanno ispirando i nuovi racconti". È davvero così? Certo, nel racconto oggi entra l'arte, perché è ormai parte della vita. Ma, quando si nomina Goffredo Parise come emblema di questo assunto, qualcosa non funziona più. Lettera aperta di Luigi Meneghelli.
Dear Artribune,
volevo segnalare una sorta di piccolo “inciampo” sulle pagine de La Domenica di Repubblica dell’8 giugno scorso. Nell’articolo, peraltro puntuale e preciso (a firma di Elena Stancanelli), intitolato Il romanzo dell’arte, si sostiene che “dietro molti scrittori si nascondono pittori mancati“. Niente da eccepire; qualche nome è ben noto: Francesco Bonami, Tommaso Pincio, Marco Colapietro; e appena qualche anno addietro, Giovanni Testori o addirittura Pier Paolo Pasolini. Ma c’è una chiusa alquanto paradossale, e cioè questa: “Forse lo scrittore italiano che come artista ha fallito con maggior esattezza è stato Goffredo Parise. Che infatti di arte, nei suoi romanzi non scrisse mai…..“.
È vero che tra il 1946 e il 1947 GoffredoParise dipinse strani quadri, tinti di zolfo, sangue e notte (tra espressionismo e fantasie chagalliane); come è vero che nei suoi romanzi più impegnati (da Il prete bello a Il padrone a Il crematorio di Vienna) la questione dell’arte è sempre rimasta ai margini. Ma in realtà di arte (o meglio di artisti) egli si è interessato e ha scritto per tutta la vita. Si può dire, anzi, che tutta la sua scrittura è disegno, pittura, corpo vivo. Ma c’è anche una pubblicazione ormai rara e introvabile, intitolata proprio Artisti (edito dalle Parole Gelate nel 1984 e ristampato da Neri Pozza nel 1994), dove si racconta solo di artisti, mercanti, movimenti (Pop, Anacronismo, Graffitismo).
Io stesso, avendo avuto la fortuna di essere amico di Parise, ho registrato una delle ultime interviste da lui rilasciate (nella sua casa a Ponte di Piave), in cui mi parlò dei suoi amati autori, della loro figura fisica, di ciò che di unico, irripetibile, stravagante c’era in loro. In fondo, diceva, “c’è sempre una vicinanza espressiva tra la persona e la sua opera: anche un quadro ha il ‘naso’, come chi lo dipinge“. Ed ecco allora passare Schifano con il “languore felino, innocente, attonito da piccolo puma“; ecco la Fioroni apparire “con il suo passo leggero” e fermarsi davanti a un negozio di giocattoli: le interessano “le cose minime, certe volte quasi inesistenti, un poco incomprensibili e un pochino assurde“; ecco Cucchi “che ha la faccia da matto e la testa da vitello”; ecco Ceroli con “la sua passione intellettuale, crudele, eroica” da falegname; ecco Balla, Angeli, De Pisis, Cornell, Ontani, van Gogh, Gauguin, Chia…
Ma anche i galleristi, come Mazzoli, “non indenne da corposità e apparenti deformità“, o Lucio Amelio, che assomiglia a una “pantegana di Toledo lunga lunga e disossata“. E ancora Gian Enzo Sperone, Plinio de Martiis, Fabio Sargentini. Non mancano appunti sulla critica paludata che adopera metodi e linguaggi specialistici: Argan, Bonito Oliva, Barilli. “Morte dell’arte?”, mi diceva. “L’espressività non può scomparire: è un volto, una musica, un canto. E tutto questo non può essere sistemato, catalogato, messo a morte”. Achille Bonito Oliva? “Pure lui un topino uscito dai bassi napoletani, con una prosa oscura, illeggibile”.
Tanti colpi d’occhio, barlumi, balbettii, come quelli che troviamo anche nei due volumi dei Sillabari. Sono racconti visivi, lievi, sensuali. Non sono scritti sull’arte ma scritti d’arte, germi di un sogno, di una esplosione d’amore. Non voglio mettermi a discutere sulla differenza tra romanzo, racconto o illuminazione (come quella degli haiku, di cui Parise ha scritto con sguardo folgorante nel suo reportage dal Giappone, La bellezza è frigida). Purtroppo, quella magica intervista è stata pressoché spolpata da riviste e quotidiani. È rimasto solo qualche estremo lacerto (sempre interessante, però privo di quella ampiezza d’affresco tipica della prosa di Parise).
Quello che però volevo mettere in evidenza è che Parise all’inizio non ha mai pensato di essere un vero pittore (per cui non ha mai veramente smesso di esserlo) e che invece ha sempre avuto un occhio goloso d’arte. Appassionato e passionale. Una “sensibilità visiva” in cui le scelte escludevano sempre il già detto e il già visto, per privilegiare la novità, l’evento straordinario, come può essere una performance di Gilbert & George eseguita da Sperone. I due artisti “sembravano due ex ballerini da cabaret”, scrive Parise. “Stavano in piedi in una specie di basso soppalco, lo sguardo fisso nel vuoto… per novanta minuti. Una cosa insopportabile, una noia veramente mortale, una insensatezza. Ma una noia e una insensatezza che avevano un senso, un bagliore: estetico”. Come dire che, al di là di tutto, è sempre l’uomo con tutta la sua originalità e la sua estrosità a occupare la scena. Che è lui a fornire il materiale inesauribile che intreccia immagini e storie, opere travolgenti e di scrittori “innamorati”.
La Stancanelli chiude il suo articolo avanzando un’ipotesi, e cioè che forse Parise “del suo fallimento non smise mai di dispiacersi”. Noi chiudiamo con le parole dello stesso Parise, che vanno ben oltre la sua storia personale, ma anche oltre tutte le storie immaginabili: “Noi viviamo una catastrofe perenne, che travolge il passato, il presente e che travolgerà anche il nostro futuro. Domani galleggerà solo qualche rottame, ma sarà quel rottame a rappresentarci”.
Luigi Meneghelli
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