L’Estate dello spirito. Gian Maria Tosatti e la seconda tappa del progetto napoletano
L'“Estate” di Gian Maria Tosatti è il secondo momento delle “Sette Stagioni dello Spirito”, un progetto promosso e sostenuto dalla Fondazione Morra, con il Matronato della Fondazione Donnaregina, a cura di Eugenio Viola. Ora volge lo sguardo verso Piazza Dante, negli spazi dell'ex Anagrafe Comunale costituita nel 1809.
Un archivio umano, un catalogo della memoria, un elenco di tempi che si sommano e si addossano per sottolineare la sospensione delle (dalle) cose, il congelamento nostalgico della vita repubblicana che è metafora dell’Italia – quella di oggi e quella di ieri – devitalizzata dall’indifferenza quotidiana.
Con 2_Estate, seconda tappa delle Sette Stagioni dello Spirito, Gian Maria Tosatti (Roma, 1980) trascina lo spettatore in un nuovo avvincente viaggio, in un saggio visivo, in un atto di coscienzache prende per i capelli il tempo e lo spinge in un presente nostalgico, in uno spazio che vuole essere somma (summa) di una condizione dello spirito, di un progetto e di un destino repubblicano che nasce appiattito, mortificato dall’incuria, dal disinteresse per la cosa pubblica, dalla disattenzione. In questo nuovo progetto “Tosatti risemantizza uno spazio vuoto, silente, e con un’azione contro natura”, suggerisce Eugenio Viola nella presentazione, “lo riporta indietro nel tempo quasi volesse apparentemente restituirlo alla sua funzione originaria. In realtà lo elegge a simbolo di una parabola che attraversa”, appunto, “l’Italia repubblicana e il suo immobilismo per definire la natura stessa del male all’interno di ogni essere umano”.
L’artista diventa ora il luogo, il medium che raccoglie tutta una serie di informazioni per creare una omogeneità linguistica, un terreno praticabile attraverso il quale estroflettere il proprio discorso e offrire allo spettatore una analogia che ragiona sullo stato di stallo (la figura del Signor De Pasca è, nel lavoro, una puntura estetica meravigliosa): su un male che si configura come mancanza, assenza, corruzione volta a coinvolgere volontariamente o involontariamente tutti in un fiume che dissipa il bene comune (“in questo appunto consiste l’essenza del male”, avvisa Tommaso d’Aquino, e “cioè nel fatto che una cosa subisce una deficienza di bene”).
Presentata ufficialmente il 6 giugno all’Accademia di Belle Arti di Napoli e organizzata negli spazi dell’ex Anagrafe Comunale – la prima anagrafe della storia, costituita nel 1809 – l’Estate invita, dopo 1_La peste, a rileggere ancora una volta la storia comune per comprendere, così, il presente. Ma anche per costruire un nuovo segno di riconoscimento (sýmbolon), un nuovo ambiente utile a mettere insieme (sýn e bállō, symbállō) le parti mediante raccordi reali o metaforici che volgono lo sguardo verso l’archeologia incerta e irrequieta del futuro.
Per il secondo step del ciclo biennale dedicato alle Sette Stagioni dello Spiritohai scelto l’ex Anagrafe Comunale in piazza Dante. Da quale riflessione è nata questa nuova proairesi?
Questo progetto è un percorso di conoscenza per me, all’interno dei limiti del bene e del male nell’uomo. È una sorta di spettrografia dell’anima che è simile per certi versi, e per questo vi si appoggia, alla struttura del Castello Interiore di Santa Teresa d’Avila o della Divina Commedia. Nell’opera precedente ho lavorato sul concetto di inconsapevolezza, che è il punto limite del male. Il male assoluto, il suo grado zero per certi versi, perché il non conoscere, il non comprendere, impedisce all’uomo di scegliere, e quindi anche di poter cambiare rotta, di redimersi.
Il nuovo lavoro è il passo successivo. Indaga il concetto di inerzia, che è la prima declinazione del male. In una ipotetica traslazione dantesca, la prima stazione di questo ciclo poteva essere ambientata nel limbo degli ignavi, questa seconda è, invece, un’opera sull’inferno. L’inerzia rappresenta, infatti, uno stato dello spirito in cui siamo in grado di riconoscere il male in atto, ma lasciamo che si compia. Nell’Inferno quasi nessuno dei personaggi descritti da Dante sceglie il male per il male. Per lo più, cedono ad esso. Per debolezza. Per inerzia. L’analogia che ho usato per affrontare il tema è dell’Italia repubblicana, un Paese che appunto si è lasciato impoverire, degradare, imbruttire come scriveva Pasolini, fino a perdere molto della sua identità. Questi settant’anni di storia sono il risultato di cosa produce una condotta inerziale. Noi italiani più poveri, più ignoranti, più miseri, siamo il prodotto di una condizione malata dello spirito. Dunque la scelta dell’ex Anagrafe serve a sostenere questa analogia. L’edificio è un corpo che contiene al suo interno i documenti di tutti i napoletani. Ognuno di noi è una cellula di quel corpo e il suo decadimento strutturale simboleggia, in modo assai tangibile il nostro decadimento come singoli e come comunità.
Questa tua azione, questa tua estroflessione estetica, parte da una revisione del tessuto urbano napoletano per ripensare gli spazi e la loro storia?
Il progetto si prefigge di avere dei benefici collaterali. Similmente alla chiesa dei Santi Cosma e Damiano nella tappa precedente, quando entrammo la prima volta nell’edificio dell’ex Anagrafe lo trovammo che era sul mercato da circa dieci anni, inagibile e chiuso. Il nostro intervento ha portato l’amministrazione a prendere consapevolezza di una situazione problematica ereditata in precedenza consentendogli di poterci stare vicini nel risolverla. Attualmente l’edificio è di nuovo parzialmente agibile, è stato riaperto, e l’amministrazione si sta muovendo per toglierlo dal mercato e fare su di esso un progetto che torni a rivalutare un luogo molto importante per la città, visto che è stata la prima anagrafe italiana, istituita nel 1809, e cioè cinquant’anni prima che nel resto del Paese.
A volte un percorso artistico dedicato a una città può, oltre ai suoi obiettivi di carattere estetico, divenire anche catalizzatore di energie e riflessioni legate alla pianificazione urbana. Un’attitudine, questa, che mi interessa e che spero di poter sviluppare in collaborazione anche con docenti di architettura delle università della città e dell’Accademia con cui stiamo pensando di creare delle partnership che permettano agli studenti di sviluppare progetti di recupero integrale e riutilizzo futuro dei luoghi che Sette Stagioni dello Spirito riaprirà.
Tra i vari riferimenti che hai posto al centro del tuo percorso, l’approccio archeologico proposto da Giorgio Agamben lettore e interprete di Michel Foucault rappresenta una via d’accesso privilegiata al presente, uno spazio utile a leggere lo stato delle cose attuali, l’oggetto stesso di un sapere – suggerisce Foucault nel suo volume L’archeologia del sapere (1969) – che tende a ricercare (e a interrogare) il presente mediante un dispositivo che getta sul passato l’interrogarsi sul presente.
Ho letto alcuni mesi fa un articolo di Agamben su La Repubblica. Cui poi ne sono seguiti altri. Parlava appunto del punto morto a cui questo Paese è arrivato e suggeriva un approccio archeologico per recuperare il filo della nostra storia nel punto in cui ha iniziato a sfibrarsi. Quello che ho fatto è stato esattamente seguire la suggestione di Agamben, che però è un uomo di pensiero. Io, come artista, sono un uomo d’azione. Per cui ho compiuto, attraverso l’opera, un atto contro natura nel riportare indietro il tempo fino al punto in cui ognuno potesse vedere qual era lo scenario della catastrofe nel momento in cui si è compiuta, per comprenderla, per cambiarla. Giacché tutta l’opera si basa sul concetto che se cambiamo noi stessi, se debelliamo l’inerzia dal nostro spirito, allora possiamo cambiare quello che ci sta attorno e il suo destino.
Ancora una volta siamo in uno spazio che invita lo spettatore a essere parte di un corpo, di un percorso analitico che si prende cura dei luoghi per prendersi cura del proprio sé. Ti andrebbe di raccontarci questa seconda opera, questo secondo saggio filosofico denominato Estate?
Mi piace che accosti la declinazione visiva di Estate a un saggio filosofico. Per certi versi è un accostamento pertinente. Quest’opera è molto complessa e si declina in capitoli. Si svolge lungo una scala e quattro corridoi, che poi in realtà raddoppiano diventando otto. La scala monumentale è una condizione d’entrata che definisce la presenza del visitatore all’interno dell’opera. La sua grandezza architettonica ha l’effetto del famoso biscotto di Alice e cioè rimpicciolisce il corpo del visitatore. Nel momento in cui arriva nell’edificio, si trova di fronte a una stanza che è già l’opera completa, per certi versi. E forse direi che proprio quella stanza è Estate in quanto opera visiva, perché è un’immagine sintetica in cui è contenuto l’intero concetto del lavoro. Basterebbe quello. C’è l’arretramento nel tempo, c’è la catastrofe rappresentata da un cumulo di macerie coperte da un telo di plastica che sembra allagare lo spazio, c’è già tutto.
Se si vuol procedere oltre, nei corridoi, per oltre 1.000 mq di spazi, allora si sceglie di andare oltre l’opera visiva, si decide di fare l’esperienza fisica della catastrofe. Si accetta una tortura. Si comincia con un lungo corridoio in cui sono sparsi i documenti dell’intera vita di un uomo (V.D.P.), che lo Stato detiene e che ci raccontano la sua identità. Girando questi tavoli autoptici, ne conosceremo i sentimenti, tramite gli atti di matrimonio o quelli relativi alla nascita dei figli, ne conosceremo i desideri vedendo le cambiali che ha pagato per comprarsi i mobili del salotto nuovo, o le preoccupazioni vedendo le sue cartelle cliniche. Lo vedremo finanche nel suo scheletro, vedremo dentro il suo cervello attraverso le tac. Ci sembrerà la storia di uno, ma girato l’angolo ci troveremo in una biblioteca piena di volumi che contengono milioni di altri uomini come lui. Ogni napoletano è lì dentro, ogni possibile visitatore. Il micro-mondo di uno moltiplicato per milioni diventa il macro-mondo che è il corpo dello Stato, o per ulteriore estensione dell’umanità, in cui le responsabilità di uno non sono svincolate dal destino di tutti. E in tutta questa galassia statica, lasciata all’incuria dei mille caffè giornalieri, l’unica cosa che cresce è una selva ordinata di piante, organismi che appunto si trovano nel loro ambiente naturale perché germogliano per inerzia.
La terza parte è la caduta del palazzo, che crollando fa venir giù la storia del nostro Paese leggibile nei giornali usati per rinforzare le carte da parati ormai arrese al suolo. E infine, l’ultimo corridoio ci riporta alla videocrazia di questi ultimi trent’anni, e all’assurdo di vedere postazioni di lavoro per aggiustare decine di televisori all’interno di un luogo istituzionale. Su tutto questo incombono due elementi, la grande Statua di Dante che da fuori dalla finestra dialoga con un grande monocromo dorato. Dante e la materia da cui è nata la pittura moderna, sono le matrici insopprimibili della nostra cultura, della nostra lingua, che restano sempre punti in cui, da qualunque momento, anche dal pieno della catastrofe, si può tornare per provare a ricominciare da capo.
Come per La peste, anche per Estate (accessibile fino al 5 luglio dalle 13 alle 19) hai aperto uno spazio molto tempo prima del vernissage. Da quale ragionamento (e da quale necessità) nasce questa apertura clandestina lontana dall’ufficialità e dalla kermesse?
Questo progetto non produce mostre. Produce atti. È una circostanza politica. Noi apriamo una porta e le persone non vedono un’opera d’arte, ma l’arte che aggredisce la realtà, l’arte che torna alla realtà. Per questa ragione non diciamo mai al pubblico che c’è una mostra. Apriamo un portone e diciamo che si può visitare un edificio. Dentro quell’edificio c’è una verità inscindibile dalla vita. Ma dobbiamo anche essere consapevoli che in questi ultimi anni l’arte si è in gran parte ridotta alla sua dimensione oggettuale, decorativa. E questo ha comportato un pregiudizio, un allontanamento, una delusione da parte di quei cittadini che chiedono ai poeti di essere compagni di strada e non arredatori di appartamenti borghesi. Gli artisti sono visti con sospetto dai comuni cittadini.
Abbiamo per lungo tempo tradito la società. Ora dobbiamo dimostrare tutto da capo. Dobbiamo scendere dai piedistalli, uscire dai musei, toglierci gli allori dalla testa. Sono circostanze divenute ridicole. Sono il segno stesso del nostro decadentismo. È roba che non esiste più. La società ha già seppellito questo mondo dell’arte. Se ci attardiamo dentro di esso siamo solo dei reazionari che barano sul tavolo del tempo, che fanno di tutto per illudersi di vivere in un passato in cui non sono più utili a nessuno diventando doppiamente colpevoli nel negare la nostra presenza laddove serve, laddove si consuma l’attrito col presente. Per cui la mia urgenza è tornare per strada e trascinarmi dietro anche il buono che nel mondo dell’arte c’è. I musei, le fondazioni… dobbiamo uscirne, ma non dobbiamo abbandonarli. Dobbiamo portarli in strada con noi, perché rappresentano energie importanti. Ma dobbiamo fare poche cerimonie.
L’opera si fa conoscere col passaparola, si fa conoscere solo se qualcuno crede che sia importante parlarne ai propri amici. Molte persone entrano a vedere Estate perché riconoscono il numero di bronzo in cima al portone e la ricollegano all’opera precedente. Vogliono continuare a fare questo percorso con noi senza neppure sapere di che si tratta. Poi alla fine, quando stiamo per chiudere tutto, mandiamo i comunicati stampa, perché anche chi è sempre in ritardo sappia quello che sta succedendo.
In occasione del primo passo di questo ciclo mi dicevi: “inizio solo ora a progettare il secondo e a intravedere il terzo. Per ora sono certo che saranno sette tappe, ma che sono come i sette capitoli di un unico romanzo”. Hai individuato dunque il terzo spazio d’azione e – una piccola indiscrezione – per quando è prevista la terza mansione? Quale il suo nome?
È ancora presto per dirlo. Stiamo lavorando molto. Il prossimo lavoro però sarà su qualcosa che accennavo prima e cioè sulla possibilità di discernere il bene dal male, una proprietà che ci rende uomini, ma che ci deriva dal diavolo e dalla tentazione nel giardino dell’Eden. La reciprocità tra il bene e il male, sintetizzata nella figura di Lucifero sarà l’oggetto d’analisi di una terza tappa dal profilo marcatamente teologico.
Antonello Tolve
Napoli // fino al 5 luglio 2014
Gian Maria Tosatti – 2_Estate
a cura di Eugenio Viola
EX ANAGRAFE COMUNALE
Piazza Dante 79
081 5641655
[email protected]
www.fondazionemorra.org
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