Sono curatore indipendente, sono nato negli Anni Settanta. Appartengo a una generazione che è abituata a lavorare nel campo dell’arte contemporanea non solo in uno stato di costante insicurezza economica (comune a molti trentenni del nostro Paese), ma anche in un continuo dubbio esistenziale, alimentato dalla scarsità di attenzione da parte delle istituzioni e dall’impossibilità di realizzare progetti professionali a lungo raggio.
Come tanti colleghi, e tanti giovani coraggiosi direttori di spazi pubblici, mi dibatto quindi nell’incertezza praticando l’arte di arrangiarsi, poiché non posso praticare professionalmente nulla che non sia low budget. Anzi, molto frequentemente, nelle mostre di ricerca ospitate in luoghi pubblici, il budget nemmeno c’è (lavorare per le gallerie ha dinamiche molto diverse), e a malapena si riesce ad avere il rimborso delle spese sostenute. Si stringono i denti, si trovano altre modalità per ricevere il necessario per fare le mostre grazie al volontariato, alla complicità di aziende, amici, di gallerie che aiutano gli artisti. Ma non è mia intenzione cioè scrivere l’ennesimo cahier de doléances generazionale.
Un caso di cronaca recente mi spinge a esprimere il mio disappunto per come sono gestiti i budget pubblici per l’arte contemporanea, per come vi sia un sistema piramidale non competitivo, con una sperequazione inaccettabile tra base e vertice. Di fatto, indipendentemente dal valore di ciò che viene prodotto, non esiste un mercato delle idee e dei progetti culturali nel nostro Paese. Mentre la moltitudine vive di stenti, senza arrivare a una soglia in cui poter costituire massa critica, pochi rentier vivono di rendita di posizione, senza avere alcun confronto reale con il resto della società. Basta che la parte politica sia accondiscendente.
Mi sono indignato così (ulteriormente) quando sono venuto a sapere che il compenso per la curatela di una mostra affidata a Germano Celant, da realizzare in occasione dell’Expo, è stato fissato a 750mila euro. È una cifra spropositata, totalmente fuori dal mercato della curatela e delle prestazioni intellettuali. Sarebbe eccessivo anche se la mostra godesse in futuro del successo di cui gode tuttora la celeberrima When Attitudes Become Form. Inoltre la cifra è elevata anche in settori ben più ricchi di quello della cultura, come nel mondo bancario, in cui non sono poi così tanti i manager che possono vantare simili compensi per un anno di lavoro.
Mi sono indignato inoltre perché quella cifra è sufficiente a mandare avanti un museo medio-piccolo che si occupa di arte contemporanea per tre-quattro anni, o sostenere la ricerca di una cinquantina di giovani artisti per un biennio, o l’attività di borsisti che ricercano nel campo del contemporaneo.
Mi sono indignato poi perché, eccetto Demetrio Paparoni, nessun collega più noto e affermato del sottoscritto, conoscendo le enormi difficoltà di chi opera in questo settore, ha avuto il coraggio di chiedere pubblicamente spiegazioni a chi quei soldi ha accettato o voluto (discorso analogo meriterebbe chi quei compensi li ha destinati). Un silenzio assordante, dato che il curatore in questione – sulle cui capacità nessuno questiona – è evidentemente nell’empireo degli intoccabili, dal punto di vista professionale e politico.
Un po’ di chiarimenti e spiegazioni che motivino questa cifra, egregio dott. Celant, sarei davvero felice di sentirli, come cittadino e come addetto ai lavori. Mi auguro di non essere deluso.
Daniele Capra
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