Street Art in Italia: una storia (im)possibile, un futuro (in)certo
Esiste una storia della Street Art in Italia? Esiste una via italiana alla Street Art? Sono questi gli interrogativi da cui potrebbe originare una ricognizione, una ricerca a tutto tondo sul territorio nazionale. Certo i rischi sarebbero molti, incalcolabile la pazienza.
Chi scrive è ben cosciente dell’inevitabile parzialità del racconto, tanto che, per evitare confusione, ha preferito dichiararla in partenza e, per quanto possibile, prenderne atto a mo’ di monito. Cosa sappiamo con certezza? Uno dei dati storici ineluttabili è la mostra Arte di frontiera. New York Graffiti che inaugurò il 17 marzo del 1984 all’allora Galleria d’Arte Moderna di Bologna. L’evento, a trent’anni dalla sua realizzazione, rimane un punto cardine, sia per la conoscenza del fenomeno nel nostro Paese, sia per il valore storico-critico dell’indagine a livello europeo, forse mondiale. A questa mostra è legato indissolubilmente il nome di Francesca Alinovi, i cui sforzi non solo portarono all’attenzione della critica molti nomi divenuti ormai protagonisti indiscussi del panorama, ma gettarono nuova luce sugli studi di settore, inquadrandoli sia in ambito militante che sul versante accademico.
Alla metà degli Anni Ottanta (o meglio alla seconda metà) si usa far risalire l’arrivo della Hip Hop Culture in alcuni capoluoghi italiani come Milano, Roma e Bologna, luoghi da cui avrebbe avuto origine la diffusione capillare, tuttora in corso. Già, perché i “graffiti” in quel momento erano parte dei quattro elementi (con DJing, MCing e Breakdance) che caratterizzavano il fenomeno newyorchese alla conquista del pianeta. Con pochi anni di scarto rispetto ad altre capitali europee, la conoscenza della cosiddetta Old School passa attraverso fanzine, immagini o, meglio, nei racconti di chi aveva potuto vedere, perfino fotografare, la situazione nella Grande Mela.
Negli Anni Novanta il fenomeno “graffiti” inizia ad assumere connotati sempre più definiti, sia in termini di numeri che in termini di capillarità della diffusione, dati ai quali si accompagna una progressiva crescita qualitativa. Un decennio complesso nel quale, da un lato, crescono le manifestazioni, perlopiù autorganizzate da gruppi di writer (convention, meeting, contest), dall’altro le amministrazioni affrontano la questione, ormai sotto gli occhi di tutti, alternando approcci concessivi e repressivi, senza porsi troppe domande. È il momento in cui si formano individualità che prendono coscienza della possibilità di intraprendere una carriera artistica vera e propria.
Risulta assolutamente necessario ricostruire questa fase, perché è innegabile che quello che oggi usiamo chiamare, con termine sicuramente vago, Street Art, in Italia – e non solo – trovi le sue radici in un amalgama che la vulgata critico-accademica ha chiamato Graffitismo (non senza creare equivoci e approssimazioni). Ciò è palese per una ragione molto semplice: perché la maggioranza dei protagonisti e, più in generale dei partecipanti, ha iniziato come writer, o deve la sua maturazione a tale approccio. Non a caso, da tempo, alcune pratiche vengono etichettate con l’appellativo di “post-graffiti”.
Gli Anni Zero hanno decretato la fortuna della Street Art, la creazione di un marchio che racchiudesse un gran numero di poetiche e intenzioni, a volte distanti per forma, sicuramente per i contenuti. Di pari passo si è formalizzata una stagione festivaliera (in parte ancora in voga) che ha contribuito alla creazione di una nuova forma di muralismo, in cui spesso si rispecchiano molte attività, che andrebbero analizzate singolarmente.
Da questo punto di vista l’Italia gioca un ruolo di punta, non solo perché lo Stivale è tra i Paesi con la più alta densità di attività nel settore, ma perché nel tempo ha saputo produrre eccellenze, spesso lontano dai grandi centri. In termini temporali, sicuramente Icone a Modena, attivo dal 2002 – tra i primi e più longevi -, il Fame Festival di Grottaglie (Taranto) che in poche edizioni ha conquistato, grazie a inviti mirati e allo stretto rapporto con alcuni protagonisti della scena, un seguito internazionale, fino a esperienze come Elementi Sotterranei a Gemona del Friuli (Udine) o il recentissimo Draw the Line a Campobasso. Al contempo, sul finire degli Anni Zero, esperienze come Outdoor a Roma e PicTurin a Torino sanciscono il passaggio verso la concezione di interventi forti e programmati nel paesaggio urbano, capaci di connotare anche il dibattito sulla cosiddetta Arte Pubblica.
In questi anni, però, non va dimenticata l’azione delle moltissime associazioni nate su tutto il territorio nazionale (impossibile nominarle tutte), che hanno in buona parte garantito la sopravvivenza di un approccio collaborativo con la pubblica amministrazione, e dalla cui spinta sono nate manifestazioni di interesse culturale. In ogni caso, se oggi questa costellazione di idee, persone, progetti ha assunto contorni più nitidi, lo si deve agli sforzi dei singoli che, operando in ambito locale, nelle migliori occasioni sono riusciti a costruire reti informali la cui esistenza è reale e fattiva.
Siamo per molti versi di fronte a un bivio: si può continuare a pensare che è meglio giudicare la maggior parte di questi interventi come creatività giovanile, affrontando il tema in termini superficiali e pensando di rivolgersi a una nicchia, oppure possiamo creare momenti di confronto, proporre analisi approfondite e provare a smentire la versione, ormai datata, che vuole il Graffitismo come un capitolo del manuale di storia dell’arte relativo agli Anni Ottanta.
Claudio Musso
www.mambo-bologna.org/mostre/mostra-131
www.facebook.com/icone.modena?fref=ts
www.famefestival.it
www.elementisotterranei.net
www.drawtheline.it
www.out-door.it
www.picturin-festival.com
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18
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