Sul “collaborazionismo” di Wang Guangyi. Lettera aperta di Demetrio Paparoni al direttore dell’Espresso
Una lettera aperta indirizzata a Bruno Manfellotto, direttore del settimanale “L’Espresso”. Dove si afferma che Wang Guangyi appoggia con il suo lavoro la propaganda della Rivoluzione culturale cinese. Il che, secondo Demetrio Paparoni, non è solo una falsità, ma l'offesa più grave che si possa fare a quell'artista.
Egregio dott. Bruno Manfellotto,
in un trafiletto a firma “AC” apparso sull’Espresso di questa settimana si afferma che l’artista cinese Wang Guangyi, cui il Festival di Ravello si appresta a dedicare una mostra, è “da molti criticato per la sua arte, definita ‘political pop’, ovvero di propaganda alla rivoluzione culturale cinese”. L’articolista si avventura inoltre nell’affermare che a scegliere l’artista sarebbe stato il presidente del festival, Renato Brunetta. Sorprende che si siano potute concentrare così tante notizie non veritiere in poche righe.
Wang Guangyi non ha è mai stato un artista “political pop”, movimento dal quale ha sempre preso le distanze. Il “political pop” cinese, inoltre, non si è mai mosso a sostegno alla propaganda della Rivoluzione culturale cinese, come scrive il suo settimanale, ma ha semmai ironizzato su di essa. Chiunque si sia accostato all’arte cinese sa che, con i dipinti del ciclo Great Criticism (1990-2007), Wang Guangyi ha affermato che la propaganda maoista e la pubblicità commerciale occidentale sono due diverse forme di lavaggio del cervello. Il suo trittico Mao Zedong AO esprime la necessità di demitizzare la figura di Mao e ha suscitato l’attenzione della censura all’Avant-Garde Exibition del 1988 al National Art Museum di Pechino. L’episodio è riportato su molte pubblicazioni occidentali. Nella performance Freedom of Choice (1994), in opposizione alle limitazioni alle libertà individuali, l’artista ha invitato il pubblico a portargli qualunque diapositiva volesse vedere proiettata, qualsiasi fosse il suo contenuto. Nei lavori del ciclo VISA e Passaport (1994-1998) ha affrontato il tema dei limiti alla libertà di movimento, imposti attraverso le procedure che regolano la concessione di visti e documenti; nel ciclo Estetica della guerra fredda (2007-2008) si è concentrato sugli effetti psicologici della propaganda ideologica. A farla breve, il lavoro di Wang Guangyi indaga su cosa si nasconde dietro i fenomeni di persuasione occulta tanto in Cina quanto in Occidente, affronta il rapporto che l’uomo ha con il trascendente e si interroga sui meccanismi attraverso cui si riesce a trasformare una figura umana in un idolo (ciclo New Religion, 2011).
Mi fermo qui per non tediarla. Si sente di avallare, signor direttore, la tesi secondo cui un artista che affronta questi temi abbia inteso far “propaganda alla Rivoluzione culturale cinese”? Non le pare che chi ha scritto quel trafiletto sul settimanale da lei diretto possa essere nel migliore dei casi uno sprovveduto, che non conosce l’argomento di cui parla, e nel peggiore una persona in malafede che sfrutta l’arte per fare un attacco politico, senza preoccuparsi di dare informazioni che trovino riscontro nella realtà dei fatti?
La tesi poi secondo cui la scelta di presentare in Italia una mostra dell’artista cinese sia del presidente e non del direttore artistico, Stefano Valanzuolo, è quantomeno stupefacente. La mostra è stata proposta da me a Valanzuolo e da lui subito accettata.
Mi consenta un’altra riflessione. Il settimanale da lei diretto afferma che, per essere politicamente corretto, il presidente del Festival di Ravello avrebbe dovuto proporre una mostra di Ai Weiwei e non quella di Wang Guangyi. Ma perché mai dovrebbe essere il presidente di un festival a suggerire al direttore artistico quali artisti invitare? Si sta sostenendo che gli inviti agli artisti in manifestazioni come, ad esempio, la Biennale di Venezia devono essere condizionati da chi le presiede e non da chi le dirige?
Distinti saluti,
Demetrio Paparoni
Demetrio Paparoni ha scritto un testo per il catalogo della grande mostra di Wang Guangyi al Today Art Museum di Pechino (2011) e ha curato la monografia ufficiale dell’artista, “Works and Thoughts 1985-2012” (Skira 2013). Il suo recente libro “Il bello in buono e il cattivo, come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni”, edito da Ponte alle Grazie e in ristampa in questi giorni, contiene tre capitoli dedicati all’arte cinese contemporanea, nei quali si pone particolare attenzione al tema della censura.
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