Sul trascorrere del tempo durante la fase Rem (Koolhaas)
La fase REM - Rapid Eye Movement è l'ultima del sonno, quella dei sogni e degli incubi. La Biennale di Architettura di quest'anno sembra lontana anni luce da “Mutations” e anche dalla memorabile “Less aesthetics more ethics” di Fuksas…
Come nei sogni, il tempo va al contrario, sopra e sotto si scambiano, la luce non somiglia a quella naturale o elettrica, piuttosto una luce irreale investe le scene. Quel 2000, con le due importanti esposizioni Mutations e Less aesthetics more ethics, segnava l’ingresso dell’architettura nella cultura del mondo: fino a quel momento, le mostre di architettura vivevano nello scialbo disporsi di plastici, cartapesta, disegni di piante e prospetti, e – non dimentichiamo – affari. Un modo efficace per relegare l’architettura al margine della società e soprattutto a distanza siderale da qualsiasi forma di poesia.
Quelle magnifiche esposizioni, ciascuna a suo modo, portavano complessità uno sguardo etico e critico che ha arricchito noi tutti, giacché una maggiore sensibilità diffusa migliora notevolmente il microclima che si può respirare in un ambito. Sono state una boccata d’aria e gli autori meritano la nostra gratitudine. Come piantare un albero: lì intorno cambia il clima; come aprire una bancarella sulla spianata dei ministeri a Brasilia. Come attraversare vicoli stretti e bui e sottoporteghi e poi arrivare all’improvviso in piazza San Marco.
Le mostre del 2000 erano nuove, questa sembra usata; quelle fotografavano l’esistente ma lasciavano intravedere margini di libertà, mentre la mostra del 2014 risulta triste. Non tristissima, nemmeno brutta, ma somiglia a una barzelletta al termine della quale non ride nessuno, una battuta venuta male. Vero che tante cose sono già state dette nelle precedenti edizioni, tipo: il capitalismo ci salverà (nell’assurda mostra di Burdett), o un poco d’arte rende tutto più interessante, come nella graziosa mostra di Betsky, ma l’impressione di un argomento ripescato resta. Allora ecco il Moderno, che sopravvive ai suoi detrattori postmoderni, sopravvive splendente a quelli che tentano di affossarlo; ma vero che, per illustrarlo, questo Moderno, ci vuole un poco di gioventù, energia e molto sincero pluralismo. Qui invece vediamo un complicato pensiero totale che somiglia tanto a un pensiero unico, una mostra così o sei Munari per farla, oppure Rem Koolhaas ma giovane e in forma. Gli archetipi (Fundamentals) hanno lasciato il posto agli stereotipi se non si ancora capito che Moderno e politico sono la stessa cosa.
Monditalia cos’è, un omaggio all’Italia? A quale Italia? Quella che lascia L’Aquila in macerie? Quella della Maddalena? Quella dei decisori di Expo o del Mose in manette? Quella che si racconta come Belpaese, come terra del Buen Vivir e che tollera le molte, le troppe terre dei fuochi? Quella delle mani sulla città? Quella del Tav? Quella di chi protesta è un terrorista? Quella del Ponte sullo Stretto? Quella dei suicidi in galera? Quella delle Grandi Opere pensate sul Britannia? Quella del colonialismo, del razzismo, di Lampedusa e dei Cie? Quella del volontariato messo al lavoro? Fortunatamente la presenza di Virgilio Sieni ha restituito un lampo di vita.
Paradossalmente i padiglioni nazionali ci hanno messo qualcosa di fragrante: penso al Cile, alla sofisticata mostra della Francia, quello modernissimo del Messico, a Israele, ma che nel tempo della globalizzazione siano le nazioni a dire ancora qualcosa lascia un poco perplessi.
La Biennale di Venezia in quanto ente fa invece una bella figura, efficiente, plurale, con programmi educational, con le Biennale Sessions, una macchina oliata ed efficiente, con persone qualificate e cortesi al lavoro.
Torniamo al Moderno. La città storica europea si presenta sempre come stratificata, come un luogo che nel corso dei secoli si è ripensato più volte nello stesso ridotto perimetro: da questo nasce lo splendore di commistioni impensate e una assoluta originalità, tanto che le città europee e italiane sono state un modello di studio per secoli. Poi si è scoperto che non erano piovute dal cielo, le avevano fabbricate pietra su pietra gli uomini, per viverci, e i Moderni son poi quelli che hanno detto: “Visto che siamo noi quelli che lavorano e costruiscono, allora vogliamo Libertà Uguaglianza e Fratellanza”, sono gli anarchici, i socialisti, i comunisti. E allora nuovi i sistemi di costruzione, nuova l’organizzazione del lavoro, innumerevoli scioperi, rivoluzioni, stragi, guerre mondiali, dittature e qualche diritto sudato sangue: queste cose nuove hanno anche prodotto quella che chiamiamo architettura moderna. Spazi pubblici, infrastrutture, nuove relazioni (democratiche), cose nuove per uomini nuovi che abitano una società nuova. Del resto, la liberaldemocrazia ci insegna che il costituzionalismo europeo altro non è che l’oscillare contrapposto fra istanze che fanno emergere la libertà e istanze che fanno emergere l’uguaglianza.
I processi di speculazione edilizia postbellica e successivamente i processi neoliberisti postmoderni hanno introdotto nuovi modelli molto discutibili, spingendo le città a un’espansione inopinata che ha trasformato in peggio il tessuto dei centri storici e creato periferie infernali (gentrification). Questo ha generato aree dismesse anche in centro, abbandono, usura, emarginazione, una sorta di favelizzazione in Europa che risponde in tutto e per tutto al disegno neoliberista. Sembra incredibile che proprio il Cile di Pinochet sia stato il laboratorio di “sperimentazione” dove mettere a punto le teorie dei Chicago boys da reimportare prima negli Stati Uniti con Reagan per poi esportarlo nell’Europa della Thatcher nel Regno Unito, infine dappertutto. Il premio al padiglione cileno allude a quelle vicende che non sono solo cilene, ma che investono ciascuno di noi.
La riappropriazione dal basso dei luoghi abbandonati ha prodotto in Italia una serie di esperimenti di autogestione nell’arco di molti decenni (Centri Sociali Occupati) e, visti i molti scempi e saccheggi organizzati e legalizzati, le esperienze dei CSO sembrano più vive e interessanti di quanto hanno proposto i “decisori”: sono stati e sono laboratori sociali e culturali di prim’ordine.
A Roma si conosce la storia dell’Ospedale San Giacomo (esposta da stARTT all’Arsenale) ma risulta chiaro che ciò che viene esposto e che abbiamo apprezzato è l’attivismo dei movimenti attivi sul territorio: non edifici, ma spazi e relazioni. Meno note le vicende dell’ex Ospedale Marinoni al Lido, OaM dove il padiglione svizzero ha una summer school con Stalker.
La mostra di Koolhaas dà un centimetro a tutto ma nessun approfondimento, come su uno scaffale in un supermercato troviamo una lunga teoria di prodotti che si annichiliscono l’un l’altro, alcuni commestibili, altri scaduti, mentre forse si tratterebbe modernamente di dire che il lavoro di costruire il Moderno non lo fanno più gli schiavi, ma un pezzo fundamental della società, i lavoratori.
L’architettura un’arte? Su questo neanche una parola. Quale sarebbe il rapporto moderno tra democrazia e capitalismo? Di questo non vi traccia. Cosa sarebbe l’architettura senza un rapporto città/campagna? Di questo rapporto non abbiamo visto traccia. Temo che bisognerà aspettare ancora un poco di tempo, ma non credo poi troppo, prima che una mostra diventi il luogo non della rappresentazione patinata di una fiction ma della costruzione del reale. Costruire il reale significherebbe uscire dal sonno e smettere di gridare in coro: @££ €@$¥ !!!
Massimo Mazzone
http://www.labiennale.org/it/architettura/index.html
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