Summit Franceschini-Schimdt. Ovvero il confronto fra Ministero della Cultura e Google
Il ministro Dario Franceschini da una parte, il presidente di Google Eric Schmidt dall’altra, e nel mezzo Luca De Biase. Ma non è una sfida in salsa western, bensì il primo - e importante - passo compiuto dal TDlab, il Laboratorio per il Turismo Digitale voluto dal MiBACT. Ecco il resoconto dell’incontro di ieri.
C’ero, ieri mattina; ero lì, all’incontro organizzato dal TDLab tra il ministro della Cultura Dario Franceschini e il presidente di Google Eric Schmidt. Sono andata con i mezzi pubblici. Nella mia sbadataggine – sorta di rituale involontariamente scaramantico che sempre ripeto ogni volta che mi attende un appuntamento importante, che sia un convegno o un colloquio di lavoro – ho sbagliato tram e scelto la direzione sbagliata, solo per ritrovarmi a scendere un paio di fermate dopo, alle spalle del Palatino, il Colosseo a un passo. E a provare una straniante sensazione di disagio per l’incuria di quella striscia di percorso: erbacce, strada di servizio non asfaltata, auto parcheggiate in divieto di sosta e disordine. Nessun turista all’orizzonte, salvo quelli sul tram e qualche fortunato che gira la città con Ncc. Meno male, altrimenti avrebbero notato i rifiuti a bordo strada, e i veicoli e il personale della nettezza urbana parcheggiati a due passi, incuranti. Probabilmente addetti ad altro, ma non ho potuto fare a meno di chiedermi chi sia addetto a ripulire e mantenere quell’area, a pochi metri dai Fori di cui, di fatto, è parte integrante.
E ho pensato, prima ancora di arrivare a destinazione e di ascoltare il dialogo tra Franceschini e Schmidt, che tutta l’innovazione del mondo poco o niente può in un mondo che di sé non ha consapevolezza né rispetto. A Google lo sanno, sanno che l’Italia ha un bisogno disperato di innovazione e che è talmente indietro e talmente ricca di opportunità che Schmidt qui potrebbe prendere casa anche per i nipoti. Ma se non si interviene radicalmente, a monte, finirà che il mondo tutto il nostro patrimonio culturale preferirà vederselo nelle ricostruzioni 3d. E il ministro Franceschini lo sa. Il recente Decreto Legislativo affronta anche il problema del decoro. Benissimo, avanti così. Avanti con l’educazione ora, a tappeto, ché per valorizzare i beni culturali ci vogliono le competenze che chiede Google ma anche la comprensione di quello che valgono, davvero. E in questo Google può fare davvero poco. Infatti Schmidt lo chiede a noi.
Chiusa la parentesi, qualche elemento sull’incontro (di cui nel Google Document segnalato in calce potete leggere la trascrizione). La sintesi migliore è di Luca de Biase, moderatore: “Troppo alto e ampio il tema, troppo importanti gli interlocutori, troppo poco il tempo a disposizione“. Eppure è un incontro ricco di spunti, che offrono al MiBACT, al novello TDLab – il Laboratorio per il Turismo Digitale recentemente voluto dal ministro -, all’Università che l’ha ospitato e al mondo tutto della conoscenza, ma anche alla stessa Google, una lista lunghissima di temi e sfide.
Si parte dalle definizioni: al ministro, quella della cultura come “petrolio” va stretta: “Il petrolio inquina e si esaurisce. Preferisco pensare al nostro straordinario patrimonio come a ossigeno, che è pulito, si rigenera all’infinito e porta con sé un respiro che è vita”. Dalla digitalizzazione del patrimonio – che Franceschini auspica a tappeto sia sui beni pubblici che su quelli privati e che ha senso a patto di inserirla in un quadro di analisi della domanda che guidi verso una offerta coerente (leggi: sfruttandone il valore non solo a fini di tutela ma anche per assecondare logiche di marketing) e alla quale Schmidt esorta, incitando all’utilizzo di YouTube per almeno pillole di contenuto che possano fungere da “teaser” a quello più esteso, costruito e proposto secondo modalità anche profittevoli – alla discussione più ampia sull’“eccezione cultura”, che il ministro ricorda come paletto inamovibile rispetto ai diritti su quel patrimonio: va bene il libero scambio, ma la cultura deve rispondere ad altre logiche, che non siano quelle del puro profitto. Il suo valore trascende quello economico in senso stretto e l’Europa tutta si conferma coesa nella difesa di questo principio. Che, d’altro canto, vede Schmidt giocare la carta (peraltro servitagli benissimo dal nostro Paese con anni, decenni di colpevole trascuratezza per la materia culturale e turistica) dell’1% di PIL che politiche pro-ICT spinto potrebbero generare e sulle ricadute occupazionali che ne verrebbero.
Quello del lavoro che non c’è, delle skill dei nostri studenti che non soddisfano il mercato e dell’ecosistema delle startup ancora debole proprio in conseguenza di questo ritardo italiano verso l’innovazione è un tema ricorrente nelle risposte di Schmidt. Difficile dargli torto quando sollecita un investimento maggiore, culturale prima ancora che economico, verso l’alfabetizzazione digitale fin dalle scuole di grado inferiore, e una spinta propulsiva verso l’indirizzo dei giovani alle materie dell’ambito ICT.
Emerge, a questo punto, l’eterna dicotomia tra l’ICT come abilitante – il modello sostenuto da Franceschini, che auspica uno scambio di competenze tra Italia e altri Paesi e che permetta ai nostri di continuare a dedicarsi alla storia medievale, per esempio, senza il senso di colpa e di inadeguatezza che l’assenza competenze “tecniche” potrebbe causargli – e la posizione di Schmidt, che guarda oltre e interpreta l’ICT come il presupposto dal quale partire per un dialogo tra Paesi, culture e “cervelli” e che sia, a tutti gli effetti, paritario.
Non sono in gioco le specificità di determinati sistemi economici, ma la loro competitività. L’arretratezza italiana sui temi dell’innovazione pervasiva, certe resistenze culturali e una fisiologica inclinazione a inseguire, più che a governare, i cambiamenti hanno finito con lo “scollare” le nostre competenze da un mercato che ne ha disperato bisogno ma che ci chiede di saperle adattare, spiegare, trasferire secondo modelli ormai altrove largamente condivisi.
Torna anche, più volte, innescata infine anche da una domanda del rappresentante di Wikimedia Italia, l’annosa questione dello sfruttamento a fini commerciali dei dati della cultura, qualsiasi la loro provenienza. Una discussione che parte da lontano, che la comunità italiana degli Open Data, da Maurizio Napolitano a Luca Corsato – solo per citare due tra i suoi più rappresentativi esponenti -, ha più volte alimentato, e che riconosce il valore delle opportunità che Google è in grado di offrire; ma ne chiede il “governo” pieno, suggerendo che l’apertura e la possibilità di riuso di quei dati si facciano pilastri di ogni scelta che il ministero vorrà adottare. C’è spazio per molti, negli Open Data, e quei molti non rappresentano un reale pericolo per Google. Piuttosto, un’opportunità di crescita per il nostro Paese che, nel tempo, può innescare quel “circuito virtuoso della pervasività” da più parti auspicato (anche dalle parti di Eric Schmidt, a sentirlo parlare ieri).
Barbara Marcotulli
www.tdlab.beniculturali.it
docs.google.com/document/d/1Jv_tBKAkd67TbgNfTDVs0JOlJT1_6J3OwBJR7fjReNY/pub
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