Architetture ad alta velocità
Un’autentica rivoluzione di cui troppo poco si parla. Una rivoluzione culturale, urbanistica, architettonica. Una rivoluzione che ti fa cambiare, come tutte le rivoluzioni, la percezione che hai del tuo stesso intorno, dell’organizzazione della tua vita, del layout dei tuoi spostamenti e del rapporto col Paese che ti ospita. In realtà, non una rivoluzione, una riforma. Fatta da altri Paesi prima noi anche se, come vedremo, con caratteristiche diverse e meno orientate all’architettura e al paesaggio, che poi sono i temi e gli ambiti per i quali ne parliamo qui. Di cosa si parla? Leggete un po’…
Una riforma vera, in un Paese in cui le riforme non si riescono a fare, è una rivoluzione. E una rivoluzione è stato l’arrivo delle ferrovie veloci nel nostro paese. Prima tra Roma e Firenze, tanti anni fa (la prima ferrovia veloce d’Europa negli Anni Settanta, quando l’Italia era ancora un posto che poteva paragonarsi alle altre nazioni europee). Poi tra la Capitale e Napoli e ancora Salerno. Un nuovo buco arditissimo nell’Appennino per impiegare tra Firenze e Bologna meno del tempo che s’impiega per andare da un quartiere all’altro di Firenze o di Bologna stessa. E poi su fino a Milano e naturalmente Milano-Torino, a rinverdire la progettualità pan-urbana del MiTo, che ha le potenzialità (rimaniamo sempre alle potenzialità, mi raccomando…) di essere l’area urbana più influente del continente o giù di lì.
Ti cambia come ti senti il tuo Paese addosso. Vai per lavoro a Milano in giornata, vai a trovare un amico a Napoli in una mattinata, se lavori a Torino puoi vivere a Milano, se lavori a Milano puoi vivere a Torino. Lo fanno decine di migliaia di persone che prima non potevano farlo. Cose che disegnano il territorio e cambiano la vita agli individui e alle famiglie: in un Paese dove nulla cambia e dove le dinamiche sono ferme a quarant’anni fa, tutto questo vale il doppio.
Ma vale il triplo se pensi alla visione che ha avuto chi ha progettato questo network pensando di punteggiarlo di opere architettoniche affidate ai grandi nomi del progetto a livello mondiale. Una visione, sì. Una roba di quelle che, se non fossero state pensate in Italia, sarebbero “vendute” sui magazine patinati di tutto il mondo. Come i grandi progetti di trasformazione urbana negli Emirati Arabi o in qualche ex repubblica sovietica. E invece tra ritardi, scetticismi, nimby e italitudine, se n’è parlato fin troppo poco. A Torino (Arep per la Stazione di Porta Susa), a Roma (ABDR per la Stazione Tiburtina) e, con progetti ancora da terminare o da iniziare, a Firenze (Norman Foster), a Napoli (Zaha Hadid), a Bologna (Arata Isozaki), il grande progetto ferroviario ha cambiato forma a intere porzioni di città come nessuno aveva avuto il coraggio di fare prima. A Reggio Emilia, Santiago Calatrava ha modificato il paesaggio padano realizzando un’opera che dovrebbe essere uno dei simboli, dei brand dell’Italia che per lo meno ci prova. E invece la Stazione Mediopadana, capolavoro per certi versi, non la considera nessuno. Lo stimolo al lavoro, alla cultura e alla creatività – di più: all’apertura mentale – che proviene dal poter disporre di un Paese infrastrutturato a dovere e dunque fruibile e percorribile non si calcola. Come non si calcola il beneficio esperienziale di aver posto ai nodi di questa rete delle grandi opere architettoniche, in aggiunta alle grandiose stazioni del passato (Roma Termini, Milano Centrale, Genova Piazza Principe…).
I treni ad alta velocità sono stati l’unica cosa grande che l’Italia è stata in grado di fare nell’arco della sua Seconda Repubblica. E l’ha realizzata, al di là delle polemiche da bar, come andrebbero realizzate le cose in Italia: ingegno e cultura. Servono ora altre cose. Grandi in egual misura.
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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