Concettualismo messicano. Intervista con Abraham Cruzvillegas
Fa tanto chic fingere di non interessarsene, ma i Mondiali di Calcio non sono un evento che si può semplicemente non considerare. E così immaginiamo pure Abraham Cruzvillegas un poco afflitto per l’eliminazione del Messico agli ottavi di finale contro l’Olanda. L’avevamo appena intervistato, ed ecco cosa ci aveva raccontato.
Abraham Cruzvillegas (Città del Messico, 1968) è uno degli artisti messicani più rappresentativi degli ultimi vent’anni e fa parte di una generazione politicamente consapevole, che ha saputo trasformare la scena artistica locale in modo definitivo. “Certamente non-finito” e “auto-costruzione” sono due concetti ricorrenti nel suo lavoro, in cui l’artista fotografa l’estetica pragmatica di una società urbana insoddisfatta. L’Autoconstrucción è una strategia di sopravvivenza ingenua ed endemica, che consiste nel creare “qualcosa dal nulla”. È così che i genitori di Abraham hanno costruito la casa di famiglia ad Ajusco, Città del Messico, in totale auto-sufficienza, integrando nell’architettura oggetti trovati. E questo è il modo in cui l’artista produce il proprio lavoro.
Abraham, il concetto di “self-building” include una certa dose di speranza?
Più che self-building, direi self-constructing, cioè auto-costruzione. Esiste un certo tipo di speranza, ma questo concetto non va interpretato con autoindulgenza. Nasce dalle persone che inventano soluzioni per problemi o bisogni specifici, spesso in un contesto di precarietà, diseguaglianza sociale e/o ingiusta distribuzione delle ricchezze. Le persone che vivono nell’ambiente dell’autoconstrucción non sperano, fanno.
Una volta hai detto che l’autoconstrucción riguarda “il fallimento della promessa del consumo”. Puoi spiegarcelo meglio?
Autoconstrucción è un sistema di pensiero e di produzione che crea qualcosa dal niente, dando risalto alla scarsità come materiale. Le persone che non possono permettersi di comprare una casa o un appartamento, né di ingaggiare un architetto e pagare per la costruzione, fanno quello che possono. Allo stesso tempo, la promessa di un certo stile di vita (che per me significa “consumare”), apparsa in tutto il mondo dopo la Seconda guerra mondiale – che di fatto ha cancellato molti altri sistemi di produzione, economie locali e tradizioni culturali – ha decretato il suo stesso fallimento. In alcuni contesti specifici, dove la cosiddetta modernità non è mai arrivata, il fallimento è arrivato insieme alla promessa: simultaneamente.
Le forme che questo fallimento ha assunto nelle diverse circostanze cambiano a seconda delle problematiche sociali, economiche e storiche specifiche. Nel mio contesto si parla di autoconstrucción, ma il fenomeno ha anche altri nomi: favela, slum, shantytown ecc. Privo di qualsiasi sguardo romantico, il mio lavoro come artista più che parlare di queste situazioni o rappresentarle, attiva le modalità specifiche dell’auto-costruzione così come le ho imparate tramite l’esperienza diretta di vivere, crescere e diventare me stesso in quelle condizioni.
Hai condotto la tua ricerca in diverse parti del mondo. Cosa hai scoperto dei diversi modi di consumare delle persone (cosa buttano via, cosa consumano)?
Ho imparato molte cose sui diversi sistemi economici, e queste componenti finiscono per contrastare nelle mie sculture, ma allo stesso tempo vanno a costruire un nuovo ordine all’interno di un’organizzazione instabile dei singoli elementi, raccontando ognuno le proprie storie in una composizione polifonica.
Quando utilizzi dei rottami o altri oggetti trovati, pensi di potergli donare una seconda vita, magari più dignitosa della precedente?
Quelli che utilizzo non sono rottami; penso agli oggetti che includo nelle mie opere come materie prime, e qualsiasi cosa può integrarsi bene. Combino oggetti di varia provenienza e non ho mai trovato niente che non funzionasse alla perfezione all’interno del dialogo globale, come succede agli individui in un gruppo. Nella mia percezione, sono gli oggetti che scelgono me. Inoltre, sono loro a voler far parte di una specifica composizione all’interno della quale giocano un ruolo importante, strutturalmente, visivamente, simbolicamente. Senza battute animiste, direi che tutti i miei lavori fanno caso a sé e stanno in piedi da soli, perché ognuno è in grado di fornire il proprio modo di essere interpretato, visto, pensato, desiderato, condiviso, e questo gli dà una vita più dignitosa, in cui è un essere libero, indipendente e autonomo.
Cosa viene prima: l’idea di un lavoro oppure gli oggetti trovati? Voglio dire: hai già un concept in mente quando ti metti a cercare gli oggetti oppure questo concept si sviluppa mentre accumuli nuovi pezzi di metallo, legno ecc.?
Le idee sono cose, gli oggetti sono concetti, nell’autoconstrucción le persone includono un certo materiale nella struttura perché è utile, non necessariamente perché bello, brutto, divertente, arrugginito o luccicante. Questo è il modo in cui lavoro, e non è necessariamente un processo di cui faccio parte. Sempre più spesso, infatti, chiedo alle persone che mi aiutano, nei musei e nelle gallerie, di trovare materiali al mio posto, così diventa un appuntamento al buio molto sexy, un modo per sfidare me stesso a lavorare con qualsiasi cosa sia lì ad aspettarmi quando arrivo. Non c’è possibilità di errore. Le storie, le tradizioni, i beni, le cose, gli animali e gli dei locali sono importanti perché creano delle piccole diversioni dal commercio globale, indispensabili per fare il mio lavoro in mezzo a questa abbondanza di beni di massa, mode, linguaggi, applicazioni, usb, password e tamagotchi.
Come definiresti l’estetica del tuo lavoro?
Democratica, affettiva, emozionale, delirante, gioiosa, costruttiva, sudata, certamente non-finita, frammentaria, comunitaria, empirica, coerente con il paesaggio, ridente, debole, inefficiente, instabile, felice, auto-costruita, contraddittoria, fatta-a-mano, impegnata, generosa, solidale, indecente, sensuale, amorfa, rinnovata, bisognosa, scritta/detta, calda, concisa, un mestiere, fidanzata, un appuntamento al buio!
Sembri avere un interesse particolare nella creazione dell’equilibrio nelle tue sculture. In molte di esse si possono vedere elementi che sono sospesi all’interno di un equilibrio delicato e intricato. Da dove viene questa tendenza?
Mi piace pensare che sia una metafora dell’identità: qualcosa che sarà per sempre incompleto, sempre sul punto di crollare, qualcosa di fragile, precario, non-organizzato, insufficiente, instabile, vulnerabile, tremolante, incompleto. Molte delle mie opere sono autoritratti astratti, ma non di me stesso.
Mi sembra che ci siano diverse cose che lasci al caso, nel tuo lavoro. Gli elementi organici (carne, escrementi, sangue) hanno una vita propria e decadono naturalmente. Nel contesto di uno spazio artistico, gli addetti alla museografia tendono ad opporsi a tutto questo. Qual è la tua posizione in merito?
Sorrido.
Igor Ramírez García-Peralta
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