La ricerca di significato nei fondamentali. Sulla Biennale di Koolhaas
Una riflessione sulla contaminazione di pezzi d'autore e pezzi anonimi nella Biennale di Architettura diretta da Rem Koolhaas. E sul significato della loro catalogazione.
Molti aspetti legano Fundamentals, la Biennale diretta da Rem Koolhaas, alla mostra Art or Sound, curata da Germano Celant, che ha inaugurato a Ca’ Corner della Regina un giorno prima della 14. Mostra Internazionale di Architettura. I due curatori, che avevano già collaborato in modo molto stretto alla mostra del 2013 When Attitudes Become Form, possono essere considerati i due cervelli della Fondazione Prada e, in ambiti e modi differenti, ne hanno determinato il successo, condividendone i principi di fondo.
In entrambe le mostre assistiamo all’interazione reciproca delle diverse arti: mi riferisco ad esempio alle performance musicali (o artistiche?) nel cortile di Palazzo Corner e alle danze nelle sale della Biennale. Le parole con le quali lo stesso Celant introduce il proprio lavoro potrebbero descrivere anche l’Arsenale: “Emergono zone inesplorate nelle quali è possibile far circolare insieme pittura e danza, fotografia e teatro, architettura e cinema, poesia e grafica, design e scultura… I limiti tendono a dissolversi e le arti viaggiano da un mondo visuale-plastico a un altro”.
Ma soprattutto in queste due mostre, così vicine nel tempo e nello spazio, assistiamo al convivere e alla contaminazione di elementi d’autore ed elementi anonimi. Come alla Fondazione Prada un corno da caccia del XVIII secolo condivide la stessa esposizione di un’opera di Alva Noto, così nel padiglione centrale dei Giardini le maniglie disegnate Ludwig Mies van der Rohe o da Antonio Citterio si accompagnano a un insieme di anonime maniglie del XIX e XX secolo.
In questo senso, e non in una sua presunta tendenza enciclopedica, Fundamentals si dimostra vicina anche alla Biennale di Massimiliano Gioni: in entrambi i casi le opere – o le parti di opere – degli autori sono accostate a pezzi privi di illustri paternità, magari provenienti da angoli remoti della storia. Come Gioni anche Koolhaas, nella sua catalogazione degli elementi dell’architettura, accosta brutalmente i pezzi d’autore a quelli storici, mettendoli sullo stesso piano, trascurando quindi volutamente l’elemento intellettuale della progettazione, che è la discriminante che dovrebbe distinguere il design dall’artigianato.
Giorgio Grassi aveva identificato alcuni fattori comuni ai vari tentativi di classificazione degli elementi dell’architettura: tutti rispondono “all’esigenza di porre un fondamento logico” alla materia, configurandosi “come ricerca di elementi fissi e permanenti e come risposta a una più ampia esigenza di generalità”. Ma c’è di più: molti di questi tentativi rappresentano anche la “tendenza a una rifondazione dell’architettura sui suoi elementi primitivi e originari”.
Penso che nella mostra di Koolhaas sia presente questa seconda istanza di tipo rivoluzionario, ma credo che sia assente la prima, che è invece di tipo scientifico. Tuttavia è proprio qui il suo punto di forza: Fundamentals non ha la volontà di essere un manuale o un trattato, vuole soprattutto essere una cesura con il passato, un monito secco al mondo dell’architettura, un “ricominciate da qui”.
Un gesto così estremo ha ovviamente suscitato grandi approvazioni ma anche grandi critiche, stroncature in alcuni casi, che si basano tutte più o meno su un supposto cinismo dell’olandese. In realtà, è paradossale che un atto di rifondazione così radicale non provenga dalla mente di un giovane, da chi avrebbe cioè la possibilità di contribuire al cambiamento che l’atto stesso dovrebbe innescare, ma da un grande maestro a fine carriera, che ci consegna la sua eredità per quanto sgradevole o intollerabile possa risultare ad alcuni.
Dopo tante biennali fatte di immagini accattivanti e autoreferenziali, dopo il generoso tentativo di David Chipperfield, che nella sua mostra del 2012 aveva cercato – senza trovarlo – un territorio comune, Koolhaas propone giustamente questa durissima “disconnessione” dall’architettura contemporanea e tutto ciò non è affatto scontato. Questa biennale così brutale, così trash, rimarrà scolpita nella memoria molto più dei bellissimi plastici, dei bellissimi disegni e delle bellissime fotografie delle precedenti edizioni.
Non vale la pena di criticare le singole sale che contengono gli elementi, non vale la pena neanche di commentarle: hanno senso solo tutte insieme, solo hic et nunc, alla Biennale, nel 2014. Cercare un’utilità scientifica, delle risposte o anche un significato, nei singoli Elements forse è inutile: anche in SMLXL, il libro/bibbia di Rem Koolhaas, è contenuta una catalogazione, anzi un dizionario vero e proprio. Alla voce Architecture è laconicamente riportato: “What is the act of architecture, what are its elements, its conditions, its materials, its motives?”.
Francesco Napolitano
http://www.labiennale.org/it/architettura/mostra/
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