La scomparsa della fantascienza
Negli Anni Sessanta-Settanta c’erano autori come Philip K. Dick e James Ballard, nelle due decadi successive - con cyberpunk e steampunk - arrivano pezzi da novanta come William Gibson e Bruce Sterling. E ora? Ora c’è il fantasy, e la fantascienza se ne va…
Per un decennio circa, tra Anni Sessanta e Settanta, c’è stato un momento luminoso e oscuro in cui la fantascienza ha raggiunto quasi di colpo la piena maturità, ha oltrepassato ogni confine di stile e di genere, ha attinto a piene mani alla sperimentazione modernista (Joyce, Kafka, Eliot, Woolf, Stein) e si è lanciata alla scoperta dello spazio interiore, della psiche collettiva così come si stava trasformando, cercando di restituire il valore e il senso di quella trasformazione e di proiettarla magnificamente in avanti.
Il futuro costruito a livello immaginario era ricavato dalle scorie e dai dettagli percepibili nel presente, scavati, distorti e montati. Era la fantascienza speculativa di autori come Dick, Ballard, Moorcock, Zelazny, Le Guin, Silverberg, Delany, Brunner, Spinrad, Farmer, Disch: “La fantascienza di avanguardia degli Anni Sessanta e Settanta spesso si ubriacava di parole, applicava per amore o per forza tecniche moderniste ai vecchi temi del genere, aggiungeva per compensazione manciate di alienazione e sessualità a personaggi che avevano appena messo da parte il loro regolo calcolatore. Ma l’avanguardia rese anche possibili libri come ‘Dhalgren’ di Samuel Delany, ‘Un oscuro scrutare’ di Philip K. Dick, ‘I reietti dell’altro pianeta’ di Ursula Le Guin e ‘334’ di Thomas Disch – opere paragonabili alla migliore narrativa americana degli Anni Settanta, a prescindere da etichette, categorie e generi. […] Quello che rende la fantascienza stupenda e complicata è quel misto di speculazione e di favoloso: la fantascienza è al tempo stesso narrativa di pensiero e narrativa di sogno”, scrive Jonathan Lethem [1].
Queste opere e questi autori (in particolare Ballard e Dick), il tipo di funzionamento narrativo del loro futuro, costituiscono la piattaforma su cui verrà costruito di lì a poco il cyberpunk Anni Ottanta di William Gibson, Bruce Sterling, Paul De Filippo, Lewis Shiner e altri (gli stessi, grossomodo, che si cimenteranno durante gli Anni Novanta nell’avventura stilistica e immaginativa dello steampunk): i quali monteranno quelle stranissime idee a proposito di una realtà distopica, oscura, fantasmagorica all’interno di una solida cornice teorica e tecnologica, in cui il presente e il futuro si allontanano sempre di più, fino a divenire praticamente indistinguibili fra loro. Come avviene, ad esempio, nei romanzi che Gibson sta componendo da una decina d’anni a questa parte, ambientati in un “presente immaginario” che coincide con un passato recentissimo rispetto alla narrazione (la Blue Ant Trilogy de L’accademia dei sogni-Pattern Recognition, 2001, Guerreros-Spook Country, 2007, e Zero History, 2010): “Non avevo punti di riferimento, non potevo navigare. Ciò che questi romanzi hanno fatto per me è stato permettermi di costruirmi un ‘indicatore di stranezza’. E ora, se voglio scrivere qualcosa che sia ambientato nel futuro e che sia rigorosamente immaginato a partire da questo mondo incomprensibilmente strano e complesso come quello in cui viviamo, so di averne preso le misure, in qualche modo, attraverso la narrazione, aprendo semplicemente me stesso a questa stranezza” [2].
È esattamente questo “indice di stranezza” a farsi, oggi, sempre più irrintracciabile. Intendiamoci: non è che manchino autori meravigliosi, dotati di antenne potentissime in grado di riconoscere e raccogliere i semi di futuro nel tempo che attraversiamo. Autori come China Miéville, Robert Charles Wilson, Robert J. Sawyer, Alastair Reynolds, Ken MacLeod. È che la fantascienza sembra aver perso il suo statuto, il suo potere accumulativo: la capacità di addestrare alla ricostruzione della realtà. È un genere meno attraente di altri, ridotto ormai a pochissimi nomi su uno scaffale delle librerie. Fredric Jameson, ne Il desiderio chiamato Utopia (2005), ha cominciato a indagare le cause di questa decadenza: istituendo ad esempio un collegamento diretto e importante fra lo strapotere recente del fantasy e l’involuzione, la regressione in chiave conservatrice delle nostre società. Un’epoca che non vuole immaginare criticamente se stessa, differente nel futuro, non sente alcun bisogno di una letteratura e di un’arte che la aiutino a farlo.
Christian Caliandro
[1] Perché la fantascienza non viene ancora considerata letteratura a tutti gli effetti?, minima&moralia, 30 marzo 2014, http://www.minimaetmoralia.it/wp/perche-la-fantascienza-non-viene-ancora-considerata-letteratura-a-tutti-gli-effetti/.
[2] Mike Doherty, William Gibson: I really can’t predict the future, Salon, 22 gennaio 2012.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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