Origine della voce. Riflessioni esoteriche per la ricostruzione di un’identità #03
Una riflessione sull’identità dell’artista, sul suo ruolo e su quello dei suoi maestri. Gian Maria Tosatti, attraverso il racconto di un’esperienza personale – il suo rapporto con un altro artista, Romeo Castellucci, e la visione del suo spettacolo – ci guida attraverso l’approfondimento di un tema secolare. Antico e sempre attuale.
È passato quasi un anno. Abbastanza perché lo possa raccontare nell’unico modo possibile, ossia come un fatto personale. Era la sera del primo agosto 2013, poche ore prima che gli venisse consegnato il Leone d’oro alla carriera. Dopo anni di lontananza ho scritto una lettera a Romeo Castellucci. Gli scrissi che era stato lui – che avevo seguito in ogni angolo d’Europa come diarista critico per molti anni – il mio vero maestro e lo ringraziavo. Le ragioni della lontananza da cui arrivava la mia lettera non sono importanti. Non lo sono oggi e non lo erano allora. A volte si fuggono i maestri anche solo per essere al riparo dalla loro ombra, per quanto segreti (e quindi tanto più profondi) siano i debiti che si hanno con loro.
La risposta di Romeo giunse in poche ore, il giorno stesso della cerimonia, la cosa mi colpì e così disposi di prendere un treno per ridurre quella distanza ed andare a vedere a Roma, The Four Seasons Restourant, la sua ultima opera. Platea già piena al mio arrivo. Appena il tempo di incontrare Romeo alla consolle. Una stretta di mano, nemmeno un abbraccio. E poi lo spegnersi delle luci.
Interrompo il racconto per dire che è da tempo ormai che, attraverso il mio lavoro, nelle pieghe non visibili di esso, nei suoi corollari, porto avanti, come una ostinata latenza, un’ indagine che mi è necessaria sull’identità dell’artista. Non tanto nella sua dimensione pubblica e sociale, che ho affrontato curando il primo ciclo d’incontri de La costruzione di una cosmologia, ma principalmente nella sua dimensione privata, interiore, un’indagine sulla sua stessa natura e prima ancora sulla Natura a cui egli obbedisce.
Nelle mie Sette Stagioni dello Spirito, cerco di ritagliarmi momenti di intimo dialogo con la guida che mi sono scelto, Santa Teresa d’Avila, per farmi raccontare da lei la stessa disciplina che diventa esercizio totale, la stessa fede profonda, e la medesima sottrazione che ci sono chieste costantemente in quanto artisti e alle quali non possiamo sottrarci.
Ammetto, dunque che il mio stupore è stato considerevole all’apertura del sipario, quando mi sono reso conto che Romeo esponeva sulla scena quella stessa questione che io continuo a tenere relegata alla penombra del mio studio, quando tutte le luci al neon si spengono e le matite si abbandonano. Romeo proponeva però un altro filosofo, non la mistica cristiana, ma il presocratico Empedocle, attraverso le parole di Hölderlin.
Ho 33 anni. Appartengo alla macro-generazione successiva a quella di Romeo. E sono nato l’anno precedente a quello in cui lui, assieme a Chiara e Paolo Guidi e alla sorella Claudia, dettero vita alla Socìetas Raffaello Sanzio. Vedendo lo spettacolo, che inizia appunto con un lungo dialogo tra Empedocle e il suo allievo Pausania, mi sono ritrovato in una condizione tra la proiezione e il déjà-vu, una specie di transfert. Mi sembrava di rileggere le brevi righe intercorse tra me e Romeo, ma ampliate. C’era ora, oltre al rapporto maestro-allievo, tutto il contesto temporale e tutto il non detto (o non scritto) che negli scambi tra artisti resta la parte maggioritaria del discorso. E così, rivedevo due condannati a morte, presi in due momenti diversi della loro vita. Il primo che cerca di capire quale sia l’entità superiore cui sente di dover obbedire, e l’altro che sente, invece, come lentamente quell’entità senza nome, impalpabile, che sta in tutto, ma non ha forma, lo stia lentamente abbandonando. Le domande che pongono i due personaggi sono dunque diverse. Il giovane pone il problema di chi sia l’uomo che diventa artista, l’anziano inizia a chiedersi chi sia l’artista quando torna a essere soltanto un uomo, ossia quando il suo corpo non è più medium tra le diverse entità del creato. Sul palco si abbracciano gli stessi due personaggi che poco prima, nella platea del teatro si erano stretti la mano, c’ero io, ormai non più giovane con quel che vado cercando nelle parole di Santa Teresa, e c’era Romeo, non ancora anziano con quel che ha trovato in quelle di Hölderlin/Empedocle.
Si dovrà subito notare che il testo di Hölderlin non è recitato in quest’opera, ma rammentato, si esprime in una forma riflessiva, riflette su di sé, come fosse una ripetizione ulteriore, quasi perpetua, ma non priva di evoluzioni. È appunto il suono di un buco nero – la metafora la rompe subito Castellucci stesso facendo nascere l’intera opera appunto dal silenzio roboante di un reale black hole di cui ci vengono fornite addirittura le coordinate spaziali e che non a caso si trova proprio al centro della nostra galassia. Partendo da qui, la parola di Hölderlin vuole replicare la struttura della tragedia attica, ma non si dà in quanto oratorio civile nella sua dimensione essoterica, quanto piuttosto come una riflessione esoterica sulla fragilità dell’artista, del suo essere chiamato, guidato e padrone neppure del proprio spirito. È un’autopsia di una morte in vita quella di Hölderlin, una impietosa cronaca di cosa accade quando l’artista perde il suo contatto con il reale, con la natura. È un passaggio essenziale nella vita di ognuno che sia realmente un artista. È la grande verità che si cela dietro l’ipocrisia della parola ‘maestro’. I grandi artisti che amiamo ancora, non sono finiti, ma sono spesso lontani, la loro voce è flebile. La senilità, sovente, li rende più sordi al reale. Rimane la saggezza e forse questa si accresce. Ma l’ispirazione si fa più debole. La grazia di cui sono stati sacerdoti li abbandona. Per questo i veri maestri sono sempre giovani. Ed è durante la loro gioventù che essi ci hanno fornito i veri insegnamenti.
È questo che accade e a cui si dà contesto nella prima parte dello spettacolo, che poi svanisce come in un battito di ciglia, per lasciare posto al vuoto che fin qui si è annunciato. Le forme ordinate a metà fra la danza, la coreografia tragico-greca e la ginnastica, che, nella testa dell’artista, traducono l’ordine del pensiero, si fanno invadere dal nero della paura, che allaga tutto. La voce stentorea, mediata da figure, diventa voce sola, voce interiore, voce dell’artista stesso, sempre più svuotata, quasi appunto che il suo corpo sia già stato risucchiato dal buco nero che non svanisce ed è solo destinato a ingigantirsi, lì, proprio al centro della galassia stellata della sua anima. La compostezza ellenica della tragedia hölderliniana si semplifica in una straziante ed elementare ripetizione, “Non mi abbandonare” e poi ancora “Non mi abbandonare”, inframmezzato da una serie di “No, no, no, no”. Il “Ti prego in ginocchio, Non mi abbandonare”, riferito appunto a questo contatto magico e medianico con lo spirito segreto delle cose, ricorre, più volte, rotto da scariche di lampi e tuoni che sono la forma stessa dell’illuminazione che prorompe dalla tenebra, della grazia che attraversa il corpo dell’artista come una scarica elettrica ogni volta che qualcosa, di quell’infinito-informe che è matrice dell’esistente, chiede d’essere tradotto in forma. E con un ulteriore sipario, su un’altra regione della mente si chiude il lavoro, un altro svelamento. E questa volta è la camera del caos che ci appare, dove essere e volere si fondono nell’atto, e in cui riconosciamo rapide immagini del profano intento che muove l’uomo-artista e della grazia ordinata che atterrisce e comanda l’artista-uomo.
È come se qualcuno avesse la forza di aprire il proprio cuore come un vaso di Pandora, per lasciarci un attimo annichiliti di fronte alla colonna di ombre che ne emerge fino ad accerchiarci nel buio della sala. È un atto di estrema generosità da parte dell’artista, che permette a una generazione di “allievi per ragioni anagrafiche” di stare per davvero assieme a lui su quel palco, come Empedocle e Pausania per dirci, qualcosa su di noi, che nel silenzio del teatro, è molto più udibile e chiaro delle parole che in questi anni abbiamo (s)tentato e fallito. È una lezione che arriva da un maestro che ci avvisa di quanto fragile sia l’equilibrio che ci tiene per un attimo sull’altare a servire qualcosa, o qualcuno, di cui non sappiamo il nome e ancor meno gli intenti e che senza chiederci il permesso, ci abbandonerà allo stesso modo di come ci ha presi. Una lezione antica e ancora valida, un denudamento coraggioso che segna una cesura con l’immagine pubblica dell’artista contemporaneo, autore di opere a catena e replicante di sé stesso, pila apparentemente inesauribile, venerata più in vecchiaia che in gioventù, più per il valore economico stabilizzato che per il valore fulminante dell’intuizione. Un’immagine che sempre più sembra, appunto, costruita da altri. Altri che nella tragedia di Hölderlin (e di conseguenza nell’opera di Castellucci), sono identificati come gli “agrigentini”, che innalzano prima il proprio idolo, per poi divorarlo. Gli agrigentini, che in tutti questi anni si sono occupati di noi, dando agli artisti una “educazione”, un’etichetta, un “valore” di mercato, che hanno estratto necrosi dalle loro carni anziane scambiandole per gemme o bruciato troppo in fretta le vene delicate di giovani maestri, non per calcolo, ma spesso per cecità, per ignoranza. Ecco, dopo una lunga indagine sull’identità dell’artista varrebbe spendere un tempo altrettanto lungo per capire chi siano, fuor di metafora, gli agrigentini che ci sono attorno, che continuano a starci sempre troppo addosso. Ci vorrebbe un altro spettacolo, forse, un altro atto di generosità, che cominciasse con l’adagio: “Timeo Agrigentinos et dona ferentes”. Ma no, forse no, forse sarebbe solo un sottrarre tempo a quel poco tempo che ci rimane per parlare di cose che realmente contano.
Gian Maria Tosatti
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