Le interpretazioni correnti in Italia, per lo più debitrici di Germano Celant, fanno di Piero Manzoni un concretista in chiave International Style. E riconducono la sua serie forse dirimente, gli Achrome, entro la pallida e confortevole tradizione “analitica” degli Anni Settanta. È la posizione apologetica. Esegeti più accigliati e temibili, in America, lo avversano perché adepto del “kitsch” (sic) e aduso al “ciarpame”. Questa è la posizione della collera divina. I suoi sostenitori, come Benjamin Buchloh, non si limitano a erranze ermeneutiche formidabili, ma impugnano la clava teologico-progressista per andare giù duro contro tutto quello che (per lo più europeo) sembra loro irrazionalista e criptofascista.
Manzoni finisce stritolato nella morsa di due equivoci uguali e contrari. Gli apologeti nascondono (o forse davvero ignorano) la sua intimità con de Chirico e persino la curiosità per Dalí, che gli insegna l’arte della manipolazione dei media (e chi avrebbe potuto farlo, se non il campione degli antimodernisti?).
Rimuovono l’interesse precoce per il New Dada americano, che potrebbe (ma perché?) ridurne le quotazioni sul mercato internazionale, limitandosi a raccontarci la favoletta di un Manzoni continentale. Tacciono sulle voci di datazioni per così dire “assistite” (ma quando mai discuteremo di carte geografiche e alfabeti?). Si affannano a nascondere sotto il tappeto la polvere di Lucio Fontana.
I predicatori transatlantici rimproverano invece all’artista le attitudini istrioniche. Nel frattempo il candore dei primi e grandi Achrome, cui difficilmente si potrebbe rimproverare di essere teatrali, attende l’ora del riconoscimento adeguato.
Non riusciremo a coglierne il senso se non situando Manzoni in una specifica tradizione italiana, Dada-metafisica, e descrivendone l’attività con categorie storico-estetiche appropriate.
In arte non dovremmo chiedere (quasi) a chicchessia, trascorso un tempo decente, il pegno della conversione: certo non all’incolpevole Manzoni, che non ha neppure troppo amato le sue piccole pruriginose Merde.
Michele Dantini
editorialista e saggista
docente di storia dell’arte contemporanea – università del piemonte orientale
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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