Strappi (e cuciture). Dai jeans a Fontana
Nel caratteristico scenario futuribile alla Philip Dick, gli oggetti sono sì ipermoderni, ma anche iperfragili; praticamente continuano a rompersi – e lo scrittore americano aveva immaginato addirittura un Adjustement Team, una Squadra Riparazioni che si muove per le galassie riparando le cose danneggiate o fuori uso. Neanche il genio di Dick però avrebbe immaginato che in pieno XXI secolo, invece, ci avrebbero venduto – e noi avremmo volentieri comperato – delle cose già belle e consumate da qualcun altro al posto nostro.
Il caso dei jeans strappati, lacerati, bucati, sbrindellati è stato sovente ridicolizzato, ma nessuna critica ne ha davvero rallentato il successo. Anzi, nonostante tutto si sono diffusi anche nei guardaroba dei più impervi difensori dell’ortodossia stilistica.
Il motivo di questa popolarità andrebbe dunque considerato con meno sufficienza di quanta ne abbia finora ricevuta. Tanto per cominciare, in qualunque negozio, qualunque commessa/o è già in grado di fornirvi delle precisazioni del tutto interessanti, correggendovi se sbagliate riferimento: guai a parlare di “strappi”, sono “ornamenti” oppure “ricami”; ma anche al bando termini impropri come “consumati”, “sdruciti”, “logorati”: i jeans in questione hanno semmai subito un determinato tipo di “lavorazione” o di “lavaggio”.
Personalmente, però, resto sempre davvero colpito, per non dire quasi emozionato, dall’incredibile competenza visuale dimostrata dai consumatori nei confronti del jeans strappato. È del tutto straordinario come il pubblico sia perfettamente in grado di distinguere, davvero alla prima occhiata, lo strappo abilmente artefatto del jeans di alta gamma dallo strappo, virtualmente identico, del jeans da lavoro indossato dal muratore o dall’homeless che invece se lo è procurato con un chiodo arrugginito.
Si potrebbe certo ironizzare su tanto sapere sprecato intorno a minuzie quotidiane senza alcun valore – ma forse per una volta bisognerebbe essere indulgenti verso i gusti di massa.
Forse, in questa evoluzione visuale, il ruolo dell’arte non è del tutto secondario, visto che circa sessant’anni fa proprio due maestri italiani come Burri e Fontana hanno iniziato a lacerare, bucare e rammendare la superficie sottile della tela (vedi un paio di eccellenti opere del primo esposte alla GNAM di Roma, e la bella e completa retrospettiva del secondo al MAM di Parigi).
Anche se l’azione avviene sul supporto materiale dell’opera, il risultato è eminentemente visuale: se provate a rifare un sacco di Burri strappato, o un taglio alla Fontana, vi rendete subito conto dell’enorme rilevanza dei dettagli, dalla trama della tela all’influenza di una deviazione micrometrica del gesto – per cui, come nel caso dei jeans, la differenza, potenzialmente minima, tra l’opera d’arte autentica e un miserabile tentativo di imitarla resta immensa.
Non sarebbe il caso, a questo punto, di rovesciare la genealogia prefabbricata da rotocalco, per cui l’aura vintage, l’estetica “sabi” o il conclamato shabby style vengono tardivamente accostati ai sacchi di Burri o ai tagli di Fontana? Non è forse vero il contrario – e cioè che l’estetica della “patina”, l’aura del “vissuto”, la fenomenologia del “logorio” che cerchiamo negli indumenti sono il succedaneo consumista (e “consumato”) di quelle pioneristiche intuizioni artistiche?
Non è forse questo uno dei veri motivi per cui il tipico giro del museo si conclude invariabilmente nel gift shop, e la classica ma stressante visita alla mostra viene compensata da una costosa ma rilassante full immersion di shopping?
testo e foto di
Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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