Street Art e musei: dentro o fuori dal quadro?
Fabiola Naldi è fra le massime esperte di quella che potremmo chiamare genericamente “arte urbana”. E proprio per questo, quando vede mostre musealizzanti che non riescono a ragionare con cognizione di causa sulle origini della Street Art, allora ha motivo di arricciare il naso. Perché l’arte di strada deve restare in strada? Niente affatto. Ci siamo fatti spiegare direttamente da lei cosa bisognerebbe fare e perché.
C’è stato un tempo in cui tra critici d’arte si diceva che la pittura tornava quando il mercato dell’arte era in crisi. Pensiamo, per esempio, al grande snodo della fine degli Anni Settanta e al massiccio ritorno di movimenti pittorici quali Transavanguardia, Nuovi Selvaggi, Nuovi Nuovi, Anacronisti, tra gli altri. Pensiamo anche a quando l’irriverente, innovativa e anarchica corrente del Writing (quello di prima generazione americana si intende) si è seduta comoda tra le braccia di qualche intraprendente collezionista e gallerista. Stesso periodo. Tutto tornerebbe, se non fosse che la stessa disciplina, sfuggente alle forze dell’ordine così come alle categorizzazioni di mercato, ha continuato a vivere, crescere e invadere anche le nostre capitali europee.
Torniamo all’attualità: sebbene le grandi aste e le più importanti fiere internazionali dimostrino un’inaspettata buona salute (ma verrebbe da dire che questo vale solo per coloro che già hanno una posizione nel sistema establishment), il “progresso” artistico contemporaneo pare arrancare; ecco fare capolino la oramai vecchia avanguardia del Writing con l’aggiunta della più giovane Street Art. Tutti i migliori interpreti di queste due aree estetiche sono freschi, pronti a esporsi nella possibilità di essere ancora una volta “accettati” dai fratelli maggiori e, a volte, anche quel tanto inesperti da collaborare con le più svariate proposte fatte sotto l’insegna della “esposizione istituzionale”.
Il fatto è che molti dei writer e dei wall painter che vediamo sulla strada sono anche bravissimi pittori, nel senso tecnico del termine, ed ecco allora che – perché no? – anche loro, gravidi di un immaginario caro alle generazioni più giovani, e altrettanto amato dal mondo della creatività in genere, sono oramai pronti per stare nei musei. A dire il vero è già capitato in molte altre occasioni e, salvo rarissime eccezioni, non è che sia andato proprio bene: oppure, chiusa la mostra, cancellata la memoria, perché molte di questi interventi altro non facevano che mettere un vestito buono a qualcosa che non ha abiti, non ha divise.
Detto questo, è altrettanto banale e scontato affermare che queste due avanguardie devono rimanere in strada perché è da lì che vengono. A dire il vero, credo che la massima resa sia inevitabilmente sempre sulla pelle della città, qualsiasi essa sia, ma se devono essere storicizzati, allora tutti questi ottimi artisti devono anche passare dal museo, o da un luogo altrettanto importante. Solo che se si vuole musealizzare sia il Writing sia la Street Art, allora bisogna davvero rimboccarsi le maniche, perché portare nel luogo deputato le semplici tele non solo riduce tutto il lavoro a un buon formalismo estetico, ma stringe nelle maglie della critica d’arte (se ancora ne esiste una) anche quel singolo intervento. Il risultato diviene per lo più deprimente. E non basta dare lo stesso formato, farli lavorare in coppia, trio o quartetto, far credere allo spettatore (così come anche agli artisti) che basti solo un bel contenitore e una buona selezione di artisti.
Ogni volta che mi capita di sapere che c’è una nuova mostra di writer e street artist accorro desiderosa di trovarmi finalmente di fronte all’inaspettato, ovvero alla messa in campo di una rigidissima riflessione sia sullo spazio sia su ciò che si esporrà all’interno. Per meglio dire, se si vuole musealizzare questi autori, lo sforzo da fare insieme a loro sarà enorme, perché ciò che si dovrà fare dovrà essere qualcosa che trascenda sia i loro interventi urbani, sia le loro riflessioni pittoriche (sulla tela e oltre la tela).
Riconosco a molte di queste esposizioni l’intenzione e la buona volontà ma il risultato, di volta in volta, non è mai cambiato: e attenzione, anche gli stessi autori lo sanno bene. Molti dei migliori interpreti delle due discipline quando si cimentano con lo spazio chiuso, privo di sinergie determinanti nella strada, fanno altro, non si risparmiano, modificano addirittura tratti, stilemi, e non solo i supporti.
Per tutti loro la grande sfida non è il fuori, il pubblico, a cui sono naturalmente abituati, bensì il dentro, altrettanto pubblico, ma così infarcito di “pregiudizi” da divenire l’unico e vero spazio in cui creare il “contest” che caratterizza il loro fare anche quando questo è illegale o non autorizzato.
Fabiola Naldi
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