Intervista a Francis Alÿs. Il cinema e le città da attraversare
Fino al 22 settembre è in mostra al Museo Madre di Napoli. Lui è Francis Alÿs, belga che ha fatto dell’attraversamento urbano un modo per fare arte, certo, ma anche e soprattutto per comprendere il mondo che ci circonda. Claudia Zanfi, che di passeggiate metropolitane se ne intende, lo ha intervistato per Artribune.
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Come nasce il tuo amore per il cinema?
Fino alla tarda adolescenza il mio accesso al cinema è stato molto limitato, così i pochi film che riuscii a vedere hanno lasciato un segno profondo nella mia immaginazione.
Come riesci a organizzare la troupe e le riprese in luoghi in cui l’uso della macchina fotografica e del video sono strettamente proibiti? Pensiamo a Gerusalemme, Kabul…
In Messico abbiamo un detto: meglio chiedere perdono che permesso. Il trucco sta nell’avere sempre almeno un documento che contiene una qualche forma di sigillo ufficiale. Da lì è possibile negoziare un accordo in caso di problemi. Inoltre cerco di operare con una squadra piccola e mobile, composta da non più di tre o quattro persone. E ci muoviamo velocemente, ci infiltriamo nei posti, evitando di sostare per più di trenta minuti in ogni location.
Ti sei mai trovato in difficoltà nel realizzare un’opera in territori complessi e di confine?
No, mai.
Come scegli gli interpreti e le figure che partecipano ai tuoi film?
I protagonisti dei miei progetti appartengono sempre al luogo in cui giro. Non esiste nessun pre-casting, soltanto un bando aperto, basato sull’intuizione e sul caso. La relazione del protagonista con la cinepresa è molto importante, naturalmente – se è imbarazzato, ad esempio, mentre viene filmato -, ma è perlopiù una questione di chimica, di comprensione reciproca. I protagonisti devono essere sorpresi quanto lo sono io. Questa condizione riveste un ruolo chiave nella capacità di improvvisare sul film o sullo sviluppo dell’azione.
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Francis Alys, Kabul drawings
Cosa ti porta a “camminare” in un luogo piuttosto che in un altro?
Riguardando indietro mi rendo conto che ho spesso lavorato in luoghi attraversati da una crisi o da un conflitto. Cuauhtemoc Medina mi disse a Beirut nel 2008: “Io e te siamo attratti dal modo in cui le persone sviluppano strategie di sopravvivenza durante e dopo una situazione di conflitto. Non si tratta di ‘giornalismo di guerra’, ma di una cronaca delle tattiche di vita che si sviluppano quando i sistemi sociali non sono totalmente operativi, quando ti trovi in un momento di creazione, bisogno e tensione. Si tratta, comunque, di situazioni in cui la sofferenza dell’individuo o della comunità genera più adattamento che invenzione. Voglio dire: le persone soffrono la propria amministrazione ma non gli è permesso né sono in grado di inventare”. Come scrive Steven Johnson nel suo saggio Interface Culture (1997): “Nei momenti di transizione, alcuni messaggi possono evolversi più velocemente del loro medium”.
I tuoi video coniugano architettura, arte, società: come affronti l’uso dello spazio pubblico e come intendi la sfera pubblica?
In realtà non li separo mai l’uno dall’altro. Architettura, arte, società, politica locale, confessioni, commerci: sono tutte componenti attive dell’entità urbana. Insieme costituiscono la particolare identità di ogni città, che è ciò di cui mi occupo.
Quali autori hanno influenzato le tue ricerche artistiche e perché?
Anche in questo caso, sono gli autori che ho letto durante l’adolescenza. Solo a quell’età si può essere – consciamente o inconsciamente – influenzati in maniera radicale. Gli esistenzialisti, Camus, Sartre, de Beauvoir, ma anche Borges, Calvino, Elsa Morante, Garcia Marquez, Miguel de Cervantes, Cortazar… Leggevo con passione e senza alcun criterio di selezione, divoravo qualsiasi cosa mi capitava tra le mani.
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Francis Alys
Quali registi di cinema?
Truffaut, i primi film di Kiarostami, Fellini…
L’ultimo film che hai visto?
A Separation di Asghar Farhadi.
Cosa ti attrae di più in un paesaggio urbano?
Il fatto che non sono mai veramente in grado di comprendere i suoi codici; probabilmente perché sono cresciuto in campagna. Il mio approccio alle città è un esercizio costante di traduzione, decodificazione e mappatura di un territorio all’interno del quale operare.
E cosa ti respinge, invece, di una città?
Il modo in cui la nostra economia (e la nostra cultura) globalizzata le fa diventare sempre più simili l’una all’altra.
Come organizzi i percorsi nelle città che diventano parte dei tuoi progetti?
Non esiste nessuna pianificazione o passeggiata organizzata. Trovo una situazione, e camminare diventa una modalità per attraversare quella situazione, generando a volte una minima interferenza durante il passaggio.
Ti piace collezionare (arte, oggetti, ricordi, racconti)?
Ho una sola collezione, in realtà: copie dipinte a mano di un quadro perduto di un maestro francese dimenticato del XIX secolo.
Una tua esperienza formativa indimenticabile?
Qualsiasi giorno passato con mio figlio.
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Francis Alÿs, foto di Thierry Bal
Il tuo prossimo viaggio?
Uruguay.
Il prossimo progetto artistico sul tavolo?
Il proseguimento di progetti passati, aggiungendo qualche nuovo episodio qua e là.
Claudia Zanfi
Napoli // fino al 22 settembre 2014
Francis Alÿs – Reel-Unreel (afghan projects, 2010-14)
a cura di Andrea Viliani, Eugenio Viola
MADRE
Via Settembrini 79
081 19313016
[email protected]
www.madrenapoli.it
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