Londra, dal tagging alla street art. Un tour a Shoreditch
Una visita guidata per le strade del quartiere londinese di Shoreditch, alla ricerca delle ultime creazioni di Street Art. Un’occasione, anche, per riflettere su come e quanto è cambiata l’arte di strada dagli Anni Settanta a oggi. Ovvero, da quando le autorità ricercavano gli artisti per imprigionarli a quando, oggi, li cercano per commissionare loro i lavori.
Al centro tra due muri di Braithway Street (Shoreditch), una guida si ferma e chiede al suo gruppo: “What’s the difference between this [una semi-indecifrabile striscia di lettere bombate, incastrate tra loro su uno sfondo nero che ne risalta i contorni argentati, N.d.R.] and that [il viso di una rossa in Ray-Ban violetti che si porta, un po’ alla Lichtenstein, una mano tra i capelli, sullo sfondo di un telefono surrealista da cui balzano due giri di bracciali azzurri e spumosi come onde di mare, N.d.R.]?”. Si fa avanti una ragazzina, guardando la rossa: “That’s street art and”, mentre punta il nastro di lettere, come se facesse la scoperta in quel momento, “that, mmm… is just graffiti”. “Brilliant!”, si congratula la guida, e comincia a raccontare la storia della StreetArt, nata a New York e Philadelphia negli Anni Settanta, inizialmente come tag, ovvero combinazioni di nomi e/o pseudonimi e numeri di strade (Cay161, Junior161, Japan1 e così via). Il loro valore era la quantità, non la qualità: più tagdi Cay161 c’erano in giro, più la sua fama cresceva nelle graduatorie delle gang.
Il fenomeno si diffuse con una tale velocità e intensità sui muri dei quartieri periferici, sulle pareti interne ed esterne dei convogli della metro, che dovettero intervenire le autorità. Polizia e repressione da un fronte, mentre dall’altro cominciavano il rap, l’hip-pop, la voglia di riappropriarsi di spazi che la pubblicità stava occupando tirannicamente, di lasciare qualcosa di cui vantarsi con gli amici. Chi era riuscito ad arrivare più in alto? Chi aveva rischiato più degli altri di farsi prendere da uno sbirro schizzando lettere di corsa?
Verso la seconda metà degli Anni Settanta, il tagging si trasformò in una forma più elaborata e ornata: i graffiti. Sempre rischiosi e illegali, ma già espressioni di una ricerca estetica e di uno sviluppo che si avvicinava alla calligrafia. “Although, graffiti and Street Art are two different things”, osserva la guida, lasciando al gruppo pochi minuti per riflettere di fronte all’evidenza. Su un muro, riferimenti all’arte contemporanea (Lichtenstein e Dalí, ad esempio) insieme a personaggi immaginari, creature da fumetto, forme astratte da grafica digitale. Dall’altro, loghi e firme in realtà non diversi da quelli diventati popolari negli Anni Settanta e Ottanta e che, via Londra, raggiunsero i muri europei accompagnati dalla cattiva fama: “È solo vandalismo”. “So, what do you think? Is this just vandalism?”, incalza la guida. Silenzio.
Nel 1970 a New York nessuno aveva dubbi sul vandalismo del tagging, dei graffiti e della successiva Street Art. Di certo non li aveva il sindaco, John Lindsay, che nel ’73 formò la prima alleanza anti-graffiti, a cui seguì un programma di sanzioni. Gli autori, spesso minorenni, potevano essere arrestati e puniti anche con violenza; tutti i convogli della metro dovevano essere ripuliti e le stazioni sorvegliate. Il risultato furono superfici fresche come tele nuove e quindi ancora più invitanti per i kids. Non avrebbero rischiato prigione e umiliazioni se non ci fosse stata una legge da infrangere e se non fosse stato il senso di ribellione a dare spinta, energia e coraggio, di notte, in barba a genitori e cops.
Le misure per reprimere il fenomeno si dimostrarono insufficienti. Dal 1980 al 1983, il secondo tentativo portato avanti dal sindaco successivo, Edward Koch, fu forse ancora più controproducente. Una delle sanzioni prevedeva che i ragazzini, sorpresi a vandalizzare i muri, fossero prima arrestati e poi costretti a ripulirli, eliminando in questo modo non solo le proprie “opere”, ma anche quelle degli amici. La punizione si rivelò un’insperata opportunità per incontrarsi anche tra gruppi diversi e pianificare insieme nuovi interventi.
Certezze sull’illegalità dei graffiti non c’erano neanche tra gli scrittori, i critici e i fotografi che cominciarono a interessarsi al fenomeno, facendo notare che forse l’illegalità – vista come rivolta contro le istituzioni- faceva dei graffiti un gesto artistico. In un articolo pubblicato dall’Esquire nel ’74, The great art of the 70s, Norman Mailer li difende giocando proprio sul rapporto fra arte e criminalità. Due inseparabili tagger, Cay161 e Junior161, sono presentati come eroi decaduti, a casa, un’uggiosa domenica pomeriggio. Il primo semiparalizzato dopo un incidente (che avrebbe potuto essere mortale) in un furgoncino rubato, in fuga da una volante della polizia; il secondo – dandy hip-hop in pantaloni bianchi e pulloverino fucsia – che va a fargli visita. Junior, l’unico con cui Cay torna a sorridere pensando ai vecchi tempi sulle spalle dell’amico per arrivare più in alto e spruzzare colore vicino al cielo: “Lived through the stages of the crime in order to commit an artistic act”, scrive Mailer. “What a doubling of the intensity of the artistic choice when you steal not only the cans, but try for the colours you want; not only the marker, but the width of the tip or the spout and you steal them in double amounts so you don’t run out in the middle of a masterpiece…”
Gesti artistici, quindi, non tanto o non solo perché illegali, ma per la miscela di bravura -arrivare più in alto o nei posti più impensabili – e tecnica. Con strumenti improvvisati ed economici come le bombolette spray e gli evidenziatori, calcolando le distanze dal muro, gli spessori delle punte, la larghezza delle fessure sui beccucci degli spray, i ragazzini riuscivano a creare effetti diversi e le forme che volevano. In loro, oltre lo spirito della rivolta, c’era un talento che, arditamente, Mailer paragona a quello che ventilava nelle botteghe rinascimentali, in Italia, dal Trecento al Cinquencento. Un’idealizzazione? Martha Cooper, che in quegli anni lavorava al New York Post, fu un’altra a intuire l’importanza del fenomeno e riuscì a documentarlo in una raccolta di fotografie: Subway Art. Il libro nacque grazie all’incontro casuale tra la fotogiornalista e uno degli autori dei graffiti, che la fa entrare nel suo ingenuo e precoce mondo con un patto di strada. Lei avrebbe procurato le foto, la documentazione di prodezze che sparivano veloci come i treni su cui erano schizzate, e lui e gli amici le informazioni: treni, ponti e direzioni, incluse le esposizioni come from the afternoon side/from the morning side. Martha Cooper non denunciò né si fece beccare nelle lunghe ore nel Bronx, in attesa del treno preannunciato, e i kids ottennero quello che volevano: i resti di una notte rischiosa per continuare al gioco del più bravo.
Come si è arrivati da questo alla Street Art di oggi? Cos’è cambiato dagli Anni Settanta? La guida spiega che quasi niente di quello che si vede ora sui muri di Shoreditch è illegale. Ogni murale, calco, graffito, tag è commissionato, se non dalla circoscrizione, dalle gallerie, dall’Arts Council, da proprietari di negozi o da privati che comprano i palazzi e ne affidano le pareti ai curatori. Nessuno degli artisti di strada che conosce ha meno di vent’anni; anzi, molti hanno studiato in accademia, carriere internazionali e siti in cui vendono le riproduzioni delle creazioni che lasciano per strada.
È ancora un gesto artistico? Per molti manca la carica degli esordi, la voglia di esprimere la verità di un’indesiderata sottocultura contro la legge, contro le gallerie, contro i musei. Manca lo slancio dell’ispirazione che si arrangia con i mezzi che trova e con le mani che si prestano; manca la voglia di superarsi e, allo stesso tempo, mantenersi puramente da strada. Per altri invece i problemi storici della Street Art – ovvero la mediocrità dei tratti, la mancanza di una ricerca concettuale, l’estraneità dal vocabolario della storia dell’arte e l’ovvietà dei messaggi – sono superati dai neo street artist che, per prima cosa, hanno il tempo dalla loro parte, la luce del giorno e strumenti che, oltre a bombolette spray ed evidenziatori, includono gli accademici pennelli, tutta la gamma e tipologia di colori sul mercato, le impalcature invece delle spalle dei compagni per arrampicarsi e, in certi casi, quelle mobili che salgono e scendono schiacciando un pulsante. Come nel caso di ROA, capace di imprese tipo quella di dipingere a mano, solo, in sette ore, un roditore che occupa la superficie di un palazzo.
I neo street artist sono entrati nella storia dell’arte: non è un impressionista da muro, James Cochran alias Jimmy C, che con le bombolette spray ricrea i tratti discontinui di Monet, Caillebotte, ne echeggia i colori, riadattando la tecnica a vicende contemporanee? E i topi, le Monnalise che dialogano da Sydney a Buenos Aires, da Roma e Torino, non sono i tipici occhiolini che si fanno gli artisti tra di loro? Blek le rat, Banksy, Roa – è vero, mantengono l’uso dello pseudonimo, lavorano a più mani, come le vecchie crew di Cay, Junior e Japan – non sono ricercati, piuttosto cercati dalle autorità.
Ben Eine è uno street artist e è anche l’unico artista inglese contemporaneo a essere esposto alla Casa Bianca grazie a Twenty First Century City, regalo fatto da David Cameron a Barak Obama nel primo incontro a Washington, nel 2010. Lo stesso Obama ha scelto lo street artist Shepard Fairey per la serie di poster che sono circolati gli ultimi giorni della sua campagna, nel 2008. Sono loro i neo street artist. E intanto, chissà perché le corse di Cay e Junior negli Anni Settanta a New York, i furti nei negozi per recuperare il materiale, il vandalismo degli schizzi di notte inseguiti dagli sbirri sembrano più artistici (se non altro nelle intenzioni) dei murali ben disegnati e commissionati a regola con cui Eine, Fairey e gli altri si fanno una ben pianificata autopromozione. Tutto quel vandalismo non era nato anche per fronteggiare eroicamente l’inarrestabile avanzata del commercio e della pubblicità?
Maria Pia Masella
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