L’opera d’arte nella costellazione del denaro. Parte seconda
Seconda parte del saggio di Claudio Parrini sui rapporti fra opera d’arte e valore (di mercato). Poche ma dense pagine per addentrarsi nei recessi di un’anomalia economica sulla quale pertanto vivono decine di addetti ai lavori, dagli artisti ai galleristi, dai curatori agli art-consultant.
L’opera d’arte nella costellazione del denaro
Se pensiamo al denaro come al polo principale centrale, nodale e destinale delle cose; di una sorta di vera e propria di costellazione di oggetti, merci, forza lavoro…, insomma tutte le cose, comprese le opere d’arte, occorre intercettare e intendere bene che questo polo-denaro assume una forma di valore puramente astratto, non spiegabile con forme pratiche di esempi o calcoli specifici fissi e determinati. Con il termine ‘astratto’ si conferma che il valore dal punto di vista economico è quello che ci permette di scambiare il denaro con qualcosa di diverso, all’interno della costellazione immaginaria ma allo stesso tempo reale: pensiamo al mercato e al mondo comune delle relazioni umane, in modo molto semplice e neutro, per dire che il denaro vale per quello che è, e basta.
Più che su questa astrattezza del denaro è interessante, nel nostro caso – quello delle opere d’arte -, cercare di entrare in questo intreccio di rapporti mercantili che si relaziona sempre con quel polo unico che è il denaro. Quindi in una relazione economica in cui è importante capire sì lo scambio di “gioie, desideri e sacrifici”, ma soprattutto registrare i passaggi, gli “umori”, le altalene dei prezzi, i fattori intrinseci, esterni e accidentali che danno vita, che fanno muovere il tutto il meccanismo. Ed è complicato entrare appunto nella definizione di denaro, quello che vale in quanto tale.
Certo in questo giro di “astri”, l’opera d’arte (a meno che non sia ormai catalogata come classico bene rifugio o non sia inserita in canali standard omologati, come certi portali su Internet o fiere d’arte – mi verrebbe da dire opere d’arte “astratte” proprio come il denaro), assume un aspetto amplificato e camaleontico rispetto alle altre merci, proprio per le sue componenti naturali, che spesso e volentieri l’uomo comune non mette in conto e che sono: la sensibilità, l’emozione, l’unicità, la stranezza, la follia e la tenerezza.
Paradossalmente, se il denaro è un valore irreale oserei dire (ovviamente con un suo potere reale), pur rimanendo l’asse su cui tutto ruota, l’opera d’arte almeno fino ad ora rimane l’oggetto più misterioso. Se il denaro è ciò che vale, l’arte è quella che tira?
Tentativo di oggettivazione nella compravendita di opere d’arte
Ovvero, in sintesi tentare – anche nel senso proprio dell’Einfühlung, empaticamente, e se vogliamo anarchicamente – di trovare forme di trasmissione “fisica” (lo virgoletto perché esistono anche lavori artistici immateriali) delle opere d’arte senza l’uso di moneta. È noto che ogni forma di baratto (scambio di cose dello stesso valore, come per dire un tipo di zappa con un martello; o di scambio vero e proprio, cioè un oggetto di un determinato valore con tre oggetti di valore minore: un trapano in cambio di una lima, una livella e delle lame per una sega) ha come punto di riferimento e paradigma lo scambio in natura o, in altri termini più spicci, l’esclusione di qualcos’altro come denaro, sale, oro, pietre, criptomonete eccetera.
È logico che in questa fase entrano in ballo fattori come la necessità, la reperibilità, la rarità, la durabilità nel tempo e via dicendo. Proviamo dunque a dare una torsione a questa faccia della compravendita e cercare di pensare le opere d’arte inserite nel cosmo del baratto e dello scambio. Certamente la questione è chiara (ma potrebbe essere oggetto di studio in un altro momento): se io baratto un Picasso con un Matisse della stessa “taglia”; oppure scambio un Picasso con un Dufy e una scultura di Arp.
E se provassimo a scambiare le opere d’arte con altri oggetti, e viceversa? Sicuramente è qualcosa di bipolare, nel senso che potrebbe essere un “esperimento di laboratorio” così come allo stesso tempo un “atto circense”, ma in fondo in fondo l’opera d’arte ha sempre avuto una sua proprietà monetaria, di scambio con qualcos’altro. Gli esempi più vicini sono quelli degli artisti di piccoli paesi come di metropoli, che per un piatto di minestra e un bicchiere di vino, così come per un hamburger e una coca, scambiano un loro piccolo lavoro. Oppure il caso dei corniciai (o produttori di telai) che, per farsi pagare dieci pezzi, magari accettano un tuo pezzo, oppure semplicemente un bel libro con un disegno, un taglio di capelli per un acquerello, un mese di affitto dello studio per qualche dipinto, un’auto per un tot di sculture… Nella storia ci sono esempi mitici: il macellaio dava una fetta di carne a Ligabue per una sua tela; e oggi? Un tablet per un 50×70 di un pittore emergente? Vedete, allora, che si entra in un mondo articolato ma vitale.
La torsione di oggettivare il valore delle cose più comuni, come un televisore, con un’opera d’arte, come una scultura, non è così naturale e semplice. Ma ci sono zone, aperture, interstizi, zeppe, connessioni che lo stesso artista potrebbe inventare, e potrebbe essere anche una via d’uscita naturale per la sua sopravvivenza e liberazione da vincoli assurdi e negativi.
Claudio Parrini
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