Un critico di nome Jeff Wall. Intervista con l’artista, parte prima
Jeff Wall è, con Cindy Sherman e Thomas Struth, uno dei massimi artisti, emersi negli Anni Ottanta, ad aver affermato il ruolo della fotografia come arte. Difficile accostarsi alla fotografia nell’arte contemporanea senza passare per Wall, l’artista forse più influente per le generazioni successive. Qui parla con Daniela Salvioni a proposito degli intimi dettagli della sua pratica artistica. Mentre nella nuova sede della galleria di Lorcan O’Neill sono in mostra alcuni suoi lavori.
Oltre a essere un artista, sei un art-writer. Quanto è importante che un artista spieghi il proprio lavoro? O, viceversa, è meglio che l’artista lasci che l’opera parli da sé?
Ho cominciato a scrivere nei cataloghi di diversi artisti perché me lo hanno chiesto loro. Non è mai stata una mia iniziativa. Probabilmente pensavano che avrei potuto contribuire con idee interessanti. Molti artisti sono come me: pensiamo continuamente all’arte, e stiamo continuamente ponderando la nostra risposta in merito a ciò che è arte. Per alcuni questo interrogativo assume forma scritta, altri invece non scrivono, ma le due tipologie di artisti sono comunque in dialogo.
La scrittura è però un sentiero separato dal mio lavoro. Molti ritengono che sia un modo di articolare la mia posizione circa il mio lavoro. Questo sarà in un certo senso vero; forse le mie ambizioni artistiche entrano nella scrittura, ma non deliberatamente. Non sono uno storico o un professionista; non sono obbligato a essere oggettivo, anche se spero di esserlo. Quando lavoro artisticamente, cerco di non essere discorsivo. Penso si tratti di un diverso modo di lavorare. Se anche l’arte è portatrice di un contenuto intellettuale importante, io non credo che ciò la spieghi, in nessun modo. In definitiva si tratta di commenti, di un modo verbale di apprezzarla. Io non voglio applicare direttamente le mie idee alle mie immagini; se tali idee ci sono, allora verranno fuori dalle immagini stesse. Un’immagine è sempre qualcosa di indeciso, a meno che non sia accompagnata da una didascalia che spiega ciò che stai guardando; in un certo senso è un’esperienza che non spiega se stessa nel momento in cui la stai facendo. Penso sia questa la vera natura dell’immagine, e che sia sempre stato così; io mi limito a conformarmi.
Le tue migliori immagini sono sempre già familiari e nel contempo misteriose.
Sono felice che tu la veda così. Una qualità dell’arte pittorica è che tutti i soggetti sono familiari. Un’immagine ci mostra cose che noi riconosciamo nella realtà – facce, alberi ecc. – quindi non può mai essere del tutto non familiare. Una scultura astratta o un’opera concettuale possono essere non familiari, perché potrebbero letteralmente non essere mai esistite prima, ma un’immagine non assumerà mai questa forma curiosa: la familiarità è intrinseca alla sua natura. Detto questo, ogni artista vede poi il mondo in un modo diverso, e anche diversamente in diversi momenti. Perciò, nel migliore dei casi le due categorie che hai citato si uniscono in modo da creare piacere. Quando questo capita, noi sentiamo di essere al cospetto di opere d’arte di un certo peso. Io credo che non ci sia alternativa, che l’arte debba necessariamente essere così.
Eppure hai detto spesso che il soggetto non è importante per te. Quindi si può affermare che il tuo interesse primario risieda in elementi formali, come la composizione?
I soggetti sono importanti perché inevitabili. Ma un’enfasi sul soggetto nella fotografia deriva dal giornalismo. In altre parole, ci deve essere qualcosa di significativo perché una foto venga scattata. Certo, tanta sperimentazione è stata effettuata cercando di non fotografare soggetti d’impatto, o salienti nel senso sociale. Probabilmente il grande spazio di creatività aperto dalla fotografia concerne la relazione tra il soggetto e ciò che uno ne fa, essendo così intensa la gamma tra questi due poli. Scultura e pittura non sono più obbligate a dare un reportage sull’apparenza del mondo, se mai lo sono state; invece la fotografia ha sempre questa funzione, di dirci come appaiono le cose là dove avvengono eventi significativi, come succede nei giornali. Non possiamo mai del tutto rifiutare questo, perché in ciò sta la natura della fotografia. Ciò non comporta però che lo si debba fare sempre nello stesso modo.
Io penso che sia artisticamente interessante assumere una relazione contemplativa nei confronti del soggetto, nel senso che non bisogna né semplicemente accettarlo, né viceversa inseguirlo, ma trovare una sorta di sospensione rispetto ad esso. Questo, credo, dà alla fotografia artistica una forma diversa rispetto a quella giornalistica. Non parlerei quindi di dualità tra soggetto e forma, anche se la storia dell’arte in qualche modo tratta di ciò. Il modo in cui Cézanne si rapporta a una mela è estremamente significativo: il soggetto era così generico da consentirgli di continuare a dipingere anche in assenza di soggetti più entusiasmanti, o forse non voleva dipingere cose più eccitanti, perché questo avrebbe costituito una distrazione. L’artista è sempre stato combattuto o ambivalente nel suo rapporto con il soggetto. Posso immaginare scultori incidere capitelli divertendosi a realizzare foglie d’acanto senza alcun riguardo per il significato che in questo modo conferivano alle cattedrali che venivano costruite, presi piuttosto dalla composizione e dal rapporto con la storia dell’arte. Per gli artisti c’è sempre un momento in cui trarre piacere da ciò che fanno, in cui si divertono a farlo bene – ciò si può chiamare composizione, che in un certo senso è l’essenza: composizione, fare pratico e abilità.
La fotografia ha uno strano e complicato rapporto con queste cose. A me piace stare in una zona di sospensione, e rendere questo posizionamento parte di ciò che faccio: se scelgo un soggetto interessante, quale ad esempio una rock band – che non è né estremamente interessante né non interessante –, ciò crea un problema di gestione del relativo interesse; io voglio sospendere il tuo interesse naturale per la rock band, di modo che si sposti verso l’immagine, anziché attraversare l’immagine per correre al soggetto. Penso che questo sia il gioco che viene sempre fatto con l’immagine. Guardi all’immagine o guardi attraverso l’immagine in direzione del soggetto a cui questa si rapporta? Non sono certo che l’artista sia devoto al suo soggetto.
Certo, Band and Crowd, la tua immagine di un concerto rock presente nella mostra romana da Lorcan O’Neill, ha una composizione talmente forte che il fruitore guarda ad essa, piuttosto che rincorrere il referente.
Ok, ma tu il referente devi comunque vederlo. Devi dividere e poi bilanciare l’attenzione in modo che il piacere venga dalla mera apparenza, indipendentemente dal soggetto. Invece di un concerto rock potrebbe essere una conferenza con scarso afflusso, fotografato dallo stesso angolo e nello stesso posto, con una composizione simile. In altre parole, si può immaginare che il concerto non sia l’essenza assoluta di questa immagine.
E il sito? Conta per te? Per un verso nelle tue immagini vige l’ideologia – da te teorizzata – del phantom studio. Ma poi, ad esempio nei tuoi paesaggi siciliani, ti riferisci al locus già a partire dal titolo scelto. Sei condizionato dal sito oppure no?
È solo un’ipotesi il poter sostituire un soggetto con un altro nella stessa composizione, perché il risultato sarebbe comunque un’altra immagine; il mio atteggiamento è che tenere conto di questa ipotesi sia un buon modo per approcciare il soggetto. Nella fotografia non ci sono posti in generale, ma solo luoghi specifici – quella stanza, quella collina –; non è come nelle altre arti, dove il luogo dipinto può non essere un luogo specifico. La fotografia non ha veramente quella capacità: tutto deve essere specifico, e devi accettarlo, perché la lente che cattura l’immagine deve essere da qualche parte nel modo. Perciò il sito è enormemente importante; il punto è come ci si rapporta a quell’importanza. Io cerco sempre di sospendere il mio rapporto con esso, per evitare che si instauri una relazione comune tra soggetto e immagine. Questa è una delle cose che fa la fotografia come arte: cancellare o sospendere la relazione convenzionale tra queste categorie. Mentre le altre arti si sono evolute molto più lentamente, e dunque la sospensione di cui parlo è inerente a loro, la fotografia, avendo un’origine diversa, ha dovuto ricostruirla, visto che non gli apparteneva originariamente.
Daniela Salvioni
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