Viaggio in Italia #1. Sulla strada di ritorno
Fra passato e presente, un racconto. Un memoriale che si snoda sulla A24, con un bambino che parla senza soste, un braccio di padre fuori dal finestrino e uno strano fenomeno sociologico sulle ricorrenze e l’attenzione. Intorno a terme straordinarie. È il primo dei quattro “Viaggi in Italia” su cui si impernia il numero speciale di Artribune Magazine distribuito quest’estate. E in calce trovate alcuni suggerimenti della Redazione.
Mentre guidavo sull’A24, Silvia dormiva al mio fianco.
Non ero mai stato a Tivoli.
Quando dicevo che non ero mai stato a Tivoli, ecco sollevarsi un coro unanime: “Non sei mai stato a Tivoli? Devi andarci”.
Piccola riflessione a monte: è davvero sorprendente come ci siano realtà che, in un non meglio identificato “prima” della nostra esistenza, semplicemente non esistevano: un riferimento culturale, un determinato film, una particolare canzone, un preciso luogo del mondo; poi, a un certo punto, a nostra insaputa, una molla deve essere scattata negli ingranaggi dell’orologio che regola il mondo e così, di punto in bianco, quel qualcosa che per noi ancora non esisteva inizia a comparire sempre, ma sempre sempre sempre, riproponendosi con una frequenza inquietante. Silvia, per esempio, sconosceva Coltiverò l’ortica, l’ottimo esordio de “Il Pan del Diavolo”, gliela feci ascoltare, le piacque e cominciò a incontrarla ovunque, dagli happening di arte contemporanea alle sale d’attesa degli aeroporti. Una volta mi chiamò al cellulare piena di gioia perché la stavano trasmettendo in filodiffusione dentro un ascensore. La canzone la inseguiva, a Silvia piaceva e quel pedinamento non entrò a fare parte della fastidiosa categoria “stalking”, ma fu annoverato nella ambigua categoria “messaggi che il mondo sta cercando di comunicarmi”. Il punto di codesta riflessione è semplice: Tivoli è stata per me questa cosa indefinita che a un certo punto è precipitata nella mia vita. Mi si riproponeva con una tale insistenza che nel giro di un paio d’ore l’avevo ritrovata in un documentario alla TV, dentro un romanzo d’appendice, come definizione nelle parole crociate e in un concitato dialogo tra cassiera e anziana al supermercato in cui si celebravano le grazie dei favolosi asparagi selvatici che trionfali crescono nei dintorni di indovinate dove? Cominciò a mancarmi l’aria. Dovevo risolvere la questione. Tivoli era la spina da togliersi dal cuore. Avevo deliberato con me stesso che l’avremmo espugnata nel fine settimana. Con fare tenebroso, mi diressi da Silvia.
“Sai dove ti porto domani?”
“Tivoli, no?”
Non aveva neanche sollevato lo sguardo dal libro che, sentendomi tutto importante, le avevo regalato, Portando Clausewitz all’estremo. Ovviamente, non l’avevo letto. Ovviamente, Tivoli era nuovamente riuscita a distruggere ogni mio residuo di carisma e sintomatico mistero.
Mentre ci avvicinavamo alla tanto agognata meta, nel silenzio dell’abitacolo della mia autovettura, mi erano tornati in mente i viaggi che facevamo in famiglia: la Cinquecento caricata fino allo stremo, mio padre al volante, mia madre accanto al posto guida con borse e pacchi, io e mio fratello dietro sommersi da giocattoli, cibarie, sdraio, teli da mare, libri, secchielli, palette, palloni, bicchieri, cappellini. Durante il tragitto io eseguivo in tempo reale la radiocronaca di tutto quello che vedevo: il profilo dei monti, i riflessi del sole sulla superficie del mare, l’oscuro antro delle gallerie, i colori sgargianti delle macchine incrociate, alcune targhe dalle sequenze numeriche affascinanti, la tipologia delle smorfie e dei sorrisi che mi scambiavo con i passeggeri delle altre vetture. Raccontavo ad alta voce quasi tutto quello che i miei occhi captavano, in una logorrea descrittiva che mi dava quasi pace.
Quasi tutto, quasi pace.
C’era qualcosa che non descrivevo mai, non permettendo che entrasse nella cronaca: in quella storia in presa diretta, mio padre era il limite da non valicare. Lui al volante era per me il ritratto della fierezza e dell’autorità, stabiliva il tempo e la destinazione del viaggio e deteneva il segno distintivo del potere: il gomito fuori dal finestrino. Mio fratello, accanto a me, dormiva. Mia madre, là davanti, dormiva. Io e mio padre, durante quella traversata della Sicilia, eravamo le uniche persone vive al mondo.
Mio padre per me era un adulto esperto in ogni cosa della vita, anche se mi sorprendo sempre nel dovere ammettere che in realtà lui era niente più che un ragazzo con una polo a tinta unica, una moglie giovane come lui, una macchina, una casa in affitto, un lavoro e due figli. A quell’età doveva coltivare dentro di sé un mare di sogni. Questo lo capisco solo oggi che i tempi si sono dilatati e mio padre si è incanutito e la schiena gli si è incurvata. Allora, nel nostro passato, mio padre stava zitto per un tempo che a me pareva infinito, mi sembrava anzi stesse sempre zitto, in casa, per strada, al volante. E quello che provavo a fare durante i nostri viaggi, fallendo sempre, era tentare di riempire quel silenzio che lui portava con sé. Parlavo e straparlavo, vomitavo parole e aggettivi perché quel silenzio non l’avesse vinta su tutto, sul mondo, sul viaggio, su mio padre e su di me.
A volte mio padre staccava la mano sinistra dal volante e, usando il gomito come perno, la apriva improvvisamente all’aria. Riuscivo a vedere il vento risalire la sua pelle lungo l’avambraccio, sfiorare braccio e ascella, circondargli il torace, abbracciarlo con tutto l’affetto che si meritava. Durante quei frangenti la mia radiocronaca si interrompeva. Ogni altro racconto del mondo sarebbe stato meno potente di quella scena. Quando sarei cresciuto, mi ripromettevo, anche io avrei replicato quel gesto, anche io avrei spalancato al vento dalla macchina in corsa la mia mano sinistra, in quella mia infanzia ero ancora troppo piccolo, mi era vietato sporgermi fuori dall’abitacolo e la Cinquecento, in ogni caso, non era dotata di finestrini posteriori. Però anche io cercavo in ogni modo di godere di quella brezza che, transitando dalla pelle di mio padre, arrivava a circolare in macchina. Così mi slanciavo verso il sedile di papà e, sorridendo, lasciavo che l’aria mi baciasse il collo. Era bellissimo e a me non importava più di riempire il silenzio con le parole. Poi il braccio di mio padre scendeva, la mano sinistra tornava a governare il volante e io riprendevo a raccontare le barche lontane, i pini slanciati, le nuvole a forma di Maria Maddalena.
La Villa Gregoriana di Tivoli è un posto impressionante per magnificenza e potenza. Accorrevano qui pellegrini da ogni angolo d’Europa per contemplare questo luogo capace di generare quel sentimento contrastante in cui orrore e sublime confluiscono assieme. Gli occhi stupefatti dei pellegrini di allora, come i miei quando ero entrato dentro, godevano dello spettacolo di questa gola profondissima, la Valle dell’Inferno, in cui si stagliano vigorose le cascate formate dall’Aniene, il fiume che pare sopito e che invece non appena decide di svegliarsi distrugge e devasta, seminando morte e terrore. È un parco, la Villa Gregoriana, che offre l’immagine di una natura ostile eppure addomesticata, in cui l’intervento dell’uomo è pienamente rispettoso e consapevole della furia degli elementi.
Silvia aveva gli occhi ricolmi di meraviglia, e come avrebbe potuto essere altrimenti? “È una scoperta continua quello che si trova nell’entroterra italiano”, mi aveva detto appena mi ero appoggiato alla sua spalla e io non ero riuscito ad aggiungere nulla alla pienezza di quella verità per me così confortante. La dorsale appenninica, colonna vertebrale della penisola, obbliga tutto il paesaggio a contorsioni inesauste che creano differenze per l’altura che varia, per la diversa vegetazione che si impone, per il millenario lavoro dell’uomo che modifica e trasforma.
Lo spettacolo davanti a noi era davvero superbo, e ciò che mi irretiva più di tutto, in questa Tivoli tanto vagheggiata e finalmente conquistata, era il sentire distintamente e con continuità il suono dell’acqua. Cosa cerco davvero nei viaggi, mi domandai mentre Silvia era scatenata nello scattare foto: ciò che mi sorprende? Trovarmi di fronte a quello che volevo osservare da tempo confrontando così le impressioni con il desiderio? E perché alcuni luoghi mi colpiscono più di altri? C’era nella Villa una assenza di rumore che mi restituiva una tranquillità tanto preziosa quanto fragile. Basterebbe una voce distante, un rumore improvviso, una alterazione nel suono della cascata e tutto verrebbe frantumato. Eppure questo non accadeva e il silenzio che permette di ascoltare i suoni della natura continuava a imporsi su tutto, sulla realtà fuori di me e sull’angoscia dentro di me, e questo mi faceva stare bene. Continuavo a osservare l’arcobaleno perenne che avevo di fronte, perenne perché ogni volta che c’è il sole, e c’era il sole in quei momenti, la cascata, impattando sul terreno, colorava e colorerà sempre questa porzione di valle con lo spettro della luce. Questo mi piace di un viaggio, mi dissi allora, scoprire un luogo in grado di parlarmi, che mi permetta di trovare al di fuori di me una raffigurazione emotiva di me stesso. A un primo sguardo, consideravo, questa natura sembra selvaggia, eppure esistono sentieri tracciati dalla pazienza dei piccoli passi, ci sono appoggi per le mani e scalini per il cammino, e la quiete benedetta che domina in questa sosta consente l’atto di ascoltarsi senza dovere per forza emettere giudizi. Capii che mi attirano i luoghi attraverso i quali scopro parti di me che tendo a nascondere. Mentre gli occhi vagavano da un albero al corso del fiume, mi sentivo proprio di fronte a uno specchio. Era una sensazione già nota: la stessa di quando, seduto in macchina dietro a mio padre, descrivevo la realtà catturata dal mio sguardo. Solo che allora non la possedevo la forza per ascoltarmi e così, pur di non cedere al silenzio, mi aggrappavo alla forma e ai colori delle cose. Tutta la mia cronaca era più di un mero insieme di dati e di impressioni, quelle parole erano i veli che tendevo tra un respiro e l’altro per nascondere ciò che non ero pronto ad affrontare. Quel mio descrivere tutto sguaiatamente era un modo, l’unico che avevo trovato, per non soccombere all’angoscia. Non ero in grado di reggere quel silenzio, quello di mio padre e quello di me stesso, i battiti del mio cuore mi avrebbero assordato e avrei dovuto fare i conti con i pensieri che non volevo vedere e che mi sforzavo di dimenticare. Come quella intuizione che mi addolorava e mi faceva sentire in colpa per il solo averla maturata, e cioè che mio padre ci provava a parlare, ci provava davvero ma non riusciva proprio a trovarle ‘ste benedette parole per esprimersi e di questo fallimento si vergognava così tanto da ridursi a un silenzio pesante come il piombo. Non potevo sostenere la caduta di mio padre, le parole dovevano risarcire quello strappo e quel silenzio mi straziava anche se ero soltanto un bambino, perché già vedevo in lui cosa sarei diventato io.
Sulla strada di ritorno per casa, Silvia al telefono con Eleonora magnificava Tivoli, promettendole di portare anche lei a vederla non appena sarebbe venuta a trovarci: “C’è anche un bel ristorante, è caro per la verità, ma abbiamo mangiato abbastanza bene”. Poi in macchina era calato un po’ di silenzio, era il turno in cui parlava Eleonora, allora avevo abbassato il finestrino, avevo aperto la mano e stavo lasciando scorrere il vento lungo il mio braccio quando, senza preavviso, lanciai una occhiata allo specchietto retrovisore e ci ritrovai me stesso bambino.
“Ciao”, dissi.
Non era importante quello che dicevo.
“C’è ancora parecchio da vedere”, aggiunsi.
Importante era comunicare, creare una relazione emotiva, aprire al dialogo.
“Coraggio”, conclusi.
Parlare al mio me stesso del passato mi fece stare bene.
Parcheggiata la macchina, andammo a bere una birra con gli amici e Tivoli ovviamente, adesso che l’avevo vista ed ero in grado di parlarne, non interessava più a nessuno. Intanto, il tardo pomeriggio avvolgeva Roma con una luce rosa, la mia birra era fresca e un ragazzino in bicicletta correva felice tra le strade del Pigneto.
Davide Enia
SUGGERIMENTI
A Tivoli c’è l’imbarazzo della scelta: in questo viaggio si parla del Parco Villa Gregoriana, gestito dal FAI. E poi ci sono due gioielli: Villa Adriana, che ospita nel Museo Archeologico la mostra Adriano e la Grecia (fino al 2 novembre), e Villa d’Este, con una rassegna sull’evoluzione dei costumi fra Cinque e Seicento (fino al 19 ottobre).
largo yourcenar 1
www.villaadriana.beniculturali.it
piazza trento 5
www.villadestetivoli.info
Le vacanze romane con gita fuori porta. L’auto lasciatela parcheggiata, andate a vedere la nuova Stazione Tiburtina progettata da Paolo Desideri con il suo studio ABDR, salite su un treno diretto a Pescara (ce n’è ogni mezz’ora) e scendete a Tivoli. Avete le terme più belle d’Europa a pochi passi.
via tiburtina km 22,700
www.termediroma.org
La dorsale appenninica è la colonna vertebrale d’Italia, e il Gran Sasso ne è uno degli snodi fondamentali. Tutt’intorno ad esso si sviluppa il network di Arte in Centro (fino al 28 settembre): nove mostre e venti iniziative collaterali distribuite su due Regioni, le Marche e l’Abruzzo. Da Alberto Di Fabio al Palazzo Clemente di Castelbasso a Enzo Cucchi a L’Arca di Teramo.
www.arteincentro.com
via xxiv maggio – castelbasso
www.fondazionemenegaz.it
largo san matteo – teramo
www.larcalab.it
Abbandonata la A24, ci si può dirige verso l’Adriatico (A14, se vi appassionano le autostrade). Per vedere come il fenomeno-festival in Italia non si arresta, al contrario: a Camerano è infatti appena nato Caleidoscopio. Fiore all’occhiello, la mostra Se dico Aria curata da Antonio D’Amico, con opere site specific di Marcello Chiarenza, Chris Gilmour, Angela Glajcar, Kaori Miyayama, Gianluca Quaglia e Medhat Shafik.
chiesa di san francesco
www.caleidoscopiofestival.com
La Sicilia non ha – non dovrebbe avere – bisogno di presentazioni e promozioni. Il contemporaneo laggiù, invece, stenta a decollare, pur avendo dato prova di intensa vitalità (l’esperimento del Museo Riso su tutti). Qui vi segnaliamo allora la personale di Fulvio Di Piazza alla GAM di Palermo (fino al 1° settembre). L’Isola nera, si intitola, ed è tutto un programma…
via sant’anna 21
www.galleriadartemodernapalermo.it
Rosti è il posto estivo per eccellenza a Roma. Fare colazione, portare i bimbi a giocare, sorseggiare l’aperitivo, cenare, fare tardi. Tutto, rigorosamente, all’aperto in un giardino stupendo, che migliora ogni mese con essenze, rampicanti, orti. In un contesto rilassante come una sagra di paese di qualità. Scovate quest’oasi di pace e comunità in un quartiere che rischia ogni giorno di perdere la sua battaglia contro violenza, spaccio, malavita.
via d’alviano 65
www.rostialpigneto.it
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #20
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