Angelo Musco. Da Napoli a New York e (temporaneo) ritorno
Nel suo studio di New York abbiamo incontrato l'artista di origine napoletana Angelo Musco. Vive nella Big Apple da ormai diciassette anni e lavora in un edificio sulla 39esima, dove ci ha accolto in quelli che chiama la “mente” e il “cuore” della sua anima creativa. I due spazi ospitano anche alcune delle sue grandi e impressionanti opere, che rappresentano strutture complesse di corpi umani colti in attimi di aggregazione.
Angelo Musco (Napoli, 1973) ha il merito di avere creato immagini di una bellezza tutta particolare, ma stavolta ha iniziato un progetto dove, alla costruzione degli elementi espressivi in sé per sé, ha affiancato un intento narrativo, in quanto ha deciso di raccontare una storia che ha appena iniziato a prendere forma, sulla base di photoshoot realizzati in diversi Paesi, con persone di diversa provenienza e soprattutto lingua. Angelo organizza i corpi umani in strutture architettoniche, e dal 28 settembre si prefigge di continuare a creare una sorta di sua personale nuova Babele visiva, con un photoshoot presso il Quartiere Intelligente di Napoli.
Abbiamo visto le immagini di Buenos Aires. Raccontaci in che tipo di progetto si inscrive questo evento e come ti è venuta in mente l’idea di porre l’accento sull’elemento linguistico/culturale.
Buenos Aires è solo una delle tappe scelte per il mio prossimo progetto: questa città rappresenta infatti la lingua spagnola, ossia uno dei tasselli che comporrà un progetto fotografico iniziato un anno fa a New York e a Londra. Il prodotto finale si propone di includere molte altre lingue, e ovviamente città in giro per il mondo, e dovrebbe essere ultimato entro la fine del 2015.
Sarà la mia prima città, dove sarò finalmente costruttore e architetto, spingendo il potere dell’aggregazione a un livello estremo come caratteristica principale di questa nuova avventura, come in una mia personale “Babele”, se vogliamo definirla in questi termini, dove la confusione delle lingue (con riferimento alla Genesi) è disfatta e ricostruita sotto un’unica forma espressiva.
Che rapporto hai con il lavoro che svolgi nel tuo studio e come si differenzia quello che esperisci quando sei a scattare in altre location, ossia quando ti trovi a lavorare all’estero?
Lo studio è il mio nido, è il luogo dove finalmente posso osservare, pulire e rieducare tutte le immagini e i pensieri in silenzio, senza interruzione e senza dover coordinare le persone intorno a me, ma solo le loro immagini. Lavorare all’estero è divenuta una pratica alla quale sono abbastanza abituato adesso: ho iniziato circa diciassette anni fa quando mi sono trasferito a New York, l’adattarsi e l’affrontare il nuovo nel quotidiano sono iniziati lì per me praticamente.
E durante i photoshoot?
Nella produzione dei miei servizi fotografici tutto è ben pianificato con coordinatori locali prima del mio arrivo, quindi, a parte il cambiamento linguistico e culturale, mi sento a mio agio, considerato il fatto che il prodotto che devo portare poi in studio è già tutto pianificato su carta, anche se ovviamente ci sono sempre sorprese e variazioni, che accolgo con piacere e curiosità.
Ovviamente la chiave più importante di ogni evento è l’assoluta concentrazione: devo assicurarmi di coprire tutte le basi e far sì che tutte le posizioni siano realizzate. Questi photoshoot infatti sono molto complicati da organizzare quindi non posso permettermi di dimenticare o saltare dei passaggi, visto che ritornare in certi Paesi e riorganizzare l’evento sarebbe proibitivo visto i costi elevati che lo shoot prevede (modelli, assistenti, attrezzistica, per non parlare della trasferta fisica, sponsor coinvolti ecc.).
Quanta importanza ha l’elemento “architettonico” in questa nuova serie di lavori e in cosa si differenzia rispetto a quello che hai creato finora?
Tento di inseguire l’idea di costruzione e di struttura da sempre, ho iniziato a scrivere la mia storia per immagini anni fa, la mia quotidianità è scrivere, continuare a scrivere, ogni lavoro contiene in sé elementi della storia precedente e indizi di quella che verrà, con tanto di imprevisti e sorprese. Si tratta di una sorta di verticalizzazione delle immagini precedenti, che continuano il loro viaggio rappresentativo, dai lavori acquatici alla loro canalizzazione in radici, dal loro viaggio all’interno dei sistemi vascolari degli alberi fino all’estremizzazione in nidi di varia natura…
Quale parte del processo di creazione delle tue immagini ti diverte di più?
Il relazionarmi con i modelli e la costruzione fisica delle immagini con loro è probabilmente la parte che mi entusiasma di più, e ovviamente anche la parte più importante, la connessione fisica e psicologica credo sia la chiave, la loro espressività, una volta coinvolti nel progetto, pone le basi per l’instaurarsi dell’energia del prodotto finale. Passiamo parecchio tempo prima di iniziare a lavorare, mesi a volte, con newsletter e email informative: occorre che siano a conoscenza del prodotto finale e della struttura fisica ed emozionale del lavoro.
Dove speri di lavorare in futuro e dove pensi che questo progetto ti possa portare?
Uno degli aspetti più affascinanti di questo progetto è la sua struttura stessa, amalgamare in un’unica immagine varie culture e poter raggiungere luoghi lontani e a me sconosciuti è la parte che mi intriga di più, scoprire e imparare quotidianamente sono alcuni dei miei obbiettivi principali in genere. Il Medio Oriente sarà poi la prossima avventura, dopo l’Europa in autunno invece andremo alla volta della Cina: inizierò a novembre a Hong Kong e da li continuerò per altri Paesi e culture a me nuove.
Diana Di Nuzzo
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