Biennale dell’Immagine in Movimento. Ginevra come Cannes
L’espressione è stata coniata dalla stampa svizzera e dà perfettamente il senso della misura della Biennale dell’Immagine in Movimento (allestita fino al 23 novembre), con cui “Ginevra diventa la Cannes della video arte”. Producendo ventidue opere originali di altrettanti giovani artisti internazionali, che ridisegnano un inedito atlante socio-politico.
Prendete un pullman, un treno, un aereo, un carretto trainato da buoi, cavalli, asini o quello che vi pare. Imbarcate quanti più curatori riuscite a trovare e spediteli tutti al CAC . Centre d’Art Contemporain di Ginevra. Legateli a una poltrona, applicate al volto di ognuno le pinze che toccarono al povero Malcolm McDowell in Arancia Meccanica e obbligateli a vedere una dopo l’altra le ventidue opere video che partecipano alla Biennale dell’Immagine in Movimento, nata nel 1985 e tornata a splendere dopo qualche anno di inattività proprio grazie al suo passaggio in carico al CAC.
Cosa otterrete? Grida, strepiti e lacrime di disperazione. Perché il primo dato a emergere è quello della assoluta qualità di una autodeterminazione curatoriale che porta gli artisti – benché giovani, in certi casi giovanissimi – a percorrere sentieri diversi per traiettorie, sensibilità e linguaggi; ma sorprendentemente affini per presupposti e finalità. Vince la regola della carta bianca, vince la fiducia nei mezzi dell’artista; vince sulle superfetazioni, sui dogmatismi, sui concept masturbatori e labirintici.
“Abbiamo fatto un passo indietro dal punto di vista curatoriale” ammette il direttore del CAC, Andrea Bellini: il che non significa lasciare tutto all’anarchia, ma saper guidare la barca in porto senza forzare la mano. Ricordandosi come l’allenatore migliore non è quello che impone schemi fantascientifici, ma quello che sa far giocare i propri calciatori con naturalezza, nella libertà di esprimersi al meglio. Una condizione che Bellini, ct della Biennale insieme a Hans Ulrich-Obrist e Yann Chateigné, riesce a ricreare grazie a un progetto tanto ambizioso quanto coraggioso.
I ventidue artisti selezionati e invitati a Ginevra hanno presentato progetti, ricevuto sostegno finanziario, spazi per crescere e costruire; hanno montato e post-prodotto i loro lavori in loco, trasformando la partecipazione alla Biennale in un lungo percorso di condivisione, un processo in certi casi da bottega rinascimentale, finendo per creare una amalgama e una simbiosi corroboranti. La mostra, insomma, è nata da sé; si è fatta da sola. Ed è così che sono sorti i suoi temi cardine, i canti e controcanti di un progetto dalle incredibili armonie.
Passare in rassegna i lavori esposti significa sfogliare un ideale atlante etnografico, un compendio di geografia sociale che racconta la realtà globale attraverso il cono ottico di un microscopio: puntato su questa o quella specificità, questa o quella tribù – più o meno urbana –, tassello di un mosaico che contribuisce alla definizione del quadro generale della situazione.
Troviamo allora Jeremy Shaw appropriarsi di riti collettivi di sette ultracattoliche del Midwest per strapparli dal proprio contesto, riferendole a un ipotetico futuro postatomico raccontato con un climax di inquietudine dagli straordinari effetti empatici; scoviamo l’ironica ucronia con cui Alexander Carver e Daniel Schmidt trasformano la storia coloniale di Puerto Rico in un erotico videoclip in salsa pop; ci imbattiamo nell’indagine che Arvo Leo dedica all’art brut di Pudlo Pudlat, lisergico illustratore Inuit che avrebbe meritato una stanza nel Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni.
Quella che sembra una semplice danza tribale si carica di tensioni striscianti se il gonnellino della performer ripresa da Donna Kukama per il suo video è tessuta con un camouflage militaresco; rimando a una banalità del male, a una quotidianità della violenza che emerge con echi alla Apocalypse Now nel lavoro condotto da Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli insieme ai miliziani che hanno insanguinato la Liberia negli ultimi anni.
Dalle comunità reali a quelle virtuali il passo è breve. Importante in questo senso il contributo di Li Ran, ma soprattutto quello di Tom Huett, che realizza video fake da postare su Youtube all’interno di canali dedicati a questa o quella aberrazione della società consumistica. Congreghe digitali di fashion victim, bodybuilder e patiti di tuning si trovano così inquinate da irriconoscibili incursioni d’artista, che grazie a un effetto mimetico sorprendente funzionano da grimaldello per forzare gli schemi linguistici di gruppi sociali altrimenti impenetrabili e incomprensibili ai più.
Non tutte le opere funzionano al massimo, non tutti i protagonisti sono allo stesso grado di maturazione: ma questo è un altro punto a favore di un evento che fa ciò che ogni Biennale, per statuto, dovrebbe fare. Fissare un’immagine in movimento che sia il meno sfocata possibile; evitando di chiudersi nella sindrome da album Panini, nell’assembramento a volte disordinato di grandi nomi, di firme già storicizzate, in favore di un rischio calcolato che porta a immaginare cosa accadrà domani. Anche accettando la possibilità di infilare nella catena qualche anello più debole di altri.
Francesco Sala
Ginevra // fino al 23 novembre 2014
Biennale de l’Image en Mouvement
direzione artistica di Andrea Bellini, Hans Ulrich-Obrist e Yann Chateigné
CAC – CENTRE D’ARTE CONTEMPORAIN
Rue des Vieux-Granadiers 10
+41 (0)22 3291842
[email protected]
www.centre.ch
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati