Cervelli in fuga. Al voto in Scozia per decidere sull’indipendenza
In queste ore va in scena l’atteso e per certi versi drammatico referendum che deciderà dell’indipendenza della Scozia. Ci prepariamo ad accogliere l’esito delle urne riflettendo attraverso l’incontro con una coppia di giovani ricercatori italiani di stanza a Edimburgo: anche loro elettori. Anche loro chiamati a scrivere un pezzetto di Storia...
La finestra a nastro del soggiorno dà sull’Arthur’s Seat, il pianerottolo che scorre lungo tutto il caseggiato di Dumbiedykes Road punta invece verso la sede del Parlamento disegnato – sono passati giusto dieci anni – da Enric Miralles. Quasi si trattasse di un portale, un gate tra il passato ancestrale e un presente che sa di futuro: di qua il masso irsuto che spezza la trama della città, attonita e impossibile montagna urbana tempestata di impercettibili lacerti dell’età della pietra; di là l’eclettico sommarsi di sassi e legno, cemento e acqua voluto come casa designata di una comunità che fatica, a prescindere da tutto, a non definirsi popolo.
Quando hanno preso casa qui Alberto e Giulia non hanno riflettuto sul fatto che compreso nel prezzo dell’affitto, insieme alle croste di un padrone di casa che si illude pittore, c’è in fin dei conti una camera con vista sulla Storia. Quella della Scozia e, per estensione, quella dell’Europa. Non c’è forse altra capitale al mondo dove si possa vivere in una casa popolare a soli cinquanta metri in linea d’aria dalla sede del governo, tra un supermercato aperto – quasi – h24 e un ristorante con cucina svedese: chissà se da domani cambierà qualcosa, chissà se alzeranno i canoni, chissà se arriveranno più auto blu, più camioncini con la fly per i ponti radio delle dirette tv.
A Edimburgo amano l’Italia, a Edimburgo studiano l’italiano. E Alberto, laurea con lode alla Normale di Pisa e dottorato, anni spesi ad approfondire Gadda e il suo immaginario linguistico, è dovuto arrivare fin qui per avere il lavoro che gli compete: tenere corsi di italiano all’università, che a casa – con tanto pedigree – poteva al più sgomitare per qualche supplenza alle medie.
Oggi Alberto, trent’anni quasi trentuno, lavora e paga le tasse – care ci dice, ma è il prezzo per uno stato sociale che non scherza – in Scozia. E vota in Scozia. Come Giulia del resto, l’altro nome sulla cassetta della posta, fresca di conferma di un contratto di dottorato di tre anni: che significa tre anni di lavoro, di stipendio, di esperienza e dunque quel minimo di serenità che in Italia sembra impossibile trovare.
Alberto e Giulia, che vengono da un Paese dove ci si scanna sullo ius soli, sono chiamati a decidere quale direzione dare a un rapporto secolare. Una storia di amore e odio che ha sostituito al nero del sangue quello del petrolio, tra rivendicazioni naif e analisi di mercato più o meno convincenti: e come è logico, come è naturale, Alberto e Giulia hanno paura di sbagliare, di essere colpevoli nel loro piccolo di una piccola catastrofe; di incidere chissà se per sempre sulla vita di un luogo che domani potrebbe non essere più il loro.
La campagna elettorale è martellante, massacrante, totalizzante. Il comitato dello yes si è accaparrato per primo i colori nazionali e chiede, invoca con disperazione dai manifesti blu con la croce di Sant’Andrea che la Scozia lasci la Gran Bretagna e sia – inconfutabilmente – Scozia. Il comitato del no ribatte da un’altra croce di Sant’Andrea, questa volta abbracciata dal viola del cardo e dell’erica, di non cancellare tre secoli di vita insieme. Ma lo fa con il disordine sfrontato del marito che mai avrebbe pensato di trovarsi tradito e abbandonato, e riconoscendo la propria responsabilità si arrabatta in scuse pietose e sudaticce.
Su un piatto della bilancia c’è la questione delle risorse naturali, sull’altro quello di una solidità che la Banca di Scozia ha dimostrato di non essere in grado di mantenere con continuità; di qui la convinzione di compartecipare degli oneri collettivi senza godere di uguali onori, di là il timore della responsabilità. E poi c’è altro, molto altro.
La proporzione dell’impegno per la campagna elettorale è schiacciante: per ogni poster, volantino, bandiera o spilletta che perora il no ce ne sono dieci che gridano yes. E questo a Edimburgo ma anche a Glasgow, a Oban come a Inverness. Fatta eccezione per qualche sacca di resistenza, come nel Deeside: zona di boschi e – manco a dirlo – distillerie, zona dove domina la presenza del castello di Balmoral. E dove capita che ai tradizionali giochi delle Highlands, esaltazione folklorica di virilità in kilt che gareggiano a chi scaglia pietre, martelli e tronchi il più lontano possibile si palesino il principe di Galles e la consorte. A passeggiare tra la gente che educata non si scompone, tende la mano e sorride, scambia un saluto; con un servizio d’ordine ridotto a non più di tre uomini di scorta. Con naturalezza.
Chissà alla fine cosa voteranno Alberto e Giulia. Chissà se voteranno. Chissà cosa nascerà da questa pazzesca avventura dell’indipendenza della Scozia, accolta sulle prime come se si trattasse delle rivendicazioni dello Stato Libero di Bananas; oggi equiparata da Enrico Letta a un evento che, se concretizzato, scatenerebbe effetti dirompenti paragonabili solo allo sparo di Gavrilo Princip.
Chissà se avrà ragione o meno quell’albergatore di Inverness che diceva di come, al di là della legittimità su basi storiche e culturali, il taglio avrebbe avuto senso dieci anni fa, magari l’avrà tra dieci anni. Ma no, ora no.
E chissà non si scopra, in caso di vittoria dello yes, che nell’immaginare l’Europa abbiamo sbagliato tutto. E che dunque non è nel tentativo di far quadrare a tutti i costi le macchine elefantiache e i pregiudizi dei diversi Stati nazionali la ricetta vincente, ma nel sommare la leggerezza strutturale e insieme la compattezza di micro-organismi locali, tessere minute di un puzzle che potrebbe rivelarsi sorprendentemente facile da risolvere. Non l’Europa di Francia e Germania, Spagna e Italia allora; ma l’Europa di Scozia e Catalogna, Vallonia e Paesi Baschi. E dunque, prima o poi, gli Stati Uniti d’Europa. Per davvero.
Francesco Sala
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