In memoria di un urbanista: Bernardo Secchi
È morto a ottant’anni Bernardo Secchi, urbanista che col suo magistero ha influenzato tanta architettura degli ultimi decenni. Lo ricorda in questo editoriale Valerio Paolo Mosco. Un ricordo tanto più sentito quanto grande è la differenza d’impostazione che correva tra i due.
Era un privilegio assistere ad una lezione di Bernardo Secchi (1934-2014). Secchi scolpiva le sue lezioni e poi le smerigliava con una pasta fatta di deduzioni logiche e per ultimo le levigava con dosatissimi ammiccamenti che non scendevano mai nella confidenzialità a ribasso. Secchi possedeva anche quella leggera sprezzatura vanitosa senza la quale non può esistere il grande retore. Le sue argomentazioni erano un sapiente bilanciamento tra la sequenza logica dell’illuminismo padano e le iperboli ellittiche dei filosofi francesi.
Sentendolo con attenzione si capiva la sua duttile retorica: quando la concatenazione logica illuminista diventava troppo serrata e quindi sul punto di gripparsi, Secchi la ribaltava con il relativismo dei vari Foucault o Deleuze, e quando questo relativismo era sul punto di evaporare nelle sue stesse circonvoluzioni, allora fluidamente tornava al razionalismo riduzionista. Non si poteva non rimanere affascinati da come Secchi gestiva questo pendolo retorico che ipnotizzava.
La vera seduzione si attua nei confronti di coloro i quali la pensano diversamente. Per quel che mi riguarda, non amo il pensiero relativista dei francesi e considero il principio secondo il quale esistono solo interpretazioni persino pernicioso. Per di più detesto quella città diffusa su cui si è fondata da decenni la peraltro acuta analisi di Bernardo Secchi e considero i cosiddetti “piani di terza generazione”, propagandati dagli Anni Ottanta da Secchi nei suoi editoriali su Casabella, molto meno acuti di quanto si sarebbe potuto supporre. In definitiva considero che il pensiero debole alla Vattimo di cui si è nutrita l’urbanistica di Secchi abbia prodotto un’urbanistica un po’ troppo debole, troppo in libertà vigilata rispetto alla fenomenologia.
Eppure le lezioni di Bernardo Secchi erano uno spettacolo catturante: tornivano anche chi come me afferiva a un altro mondo e ti tornivano perché raccontavano di una cultura alta e chiara, persino accessibile: una cultura alla quale dagli Anni Settanta era subentrata una cultura di segno opposto: bassa e confusa, pop ma inaccessibile nelle sue finalità.
Secchi aveva stile. Non credo che avrebbe amato questa mia affermazione idealista, ma per me Bernardo Secchi era un magister elegantiarum. Il suo stile era sobrio, velatamente scettico, intriso da un senso del decoro mai ostentato ma mai celato, qualità queste che gli permettevano di vedere le cose a volo d’uccello. Ed è proprio questa capacità di vedere le cose a volo d’uccello, di vedere l’architettura come parte di un contesto sempre più ampio, ciò che Secchi lascia all’architettura italiana.
Penso che Secchi e con lui Paola Viganò abbiano influenzato notevolmente lo stile dell’architettura italiana degli ultimi anni. Sono stati artefici di un processo di avvicinamento dell’architettura all’urbanistica e dell’urbanistica all’architettura senza il quale oggi non avremmo le architetture di Cino Zucchi o di Stefano Boeri o l’azione critica di Mirko Zardini o di studi come +Arch, Metrogramma e Barreca e Lavarra.
Non è poco per un urbanista influenzare l’architettura. Forse è il massimo a cui egli possa aspirare.
Valerio Paolo Mosco
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