Intervista ad Andrea Carandini. Lo scomodo
L’Italia ristagna a causa delle resistenze delle corporazioni. Pompei? Gravi responsabilità dei governi degli ultimi tre anni. Franceschini promosso, ottima idea quella di aprire il “mercato” dei direttori dei musei. Ma nessuno tocchi le soprintendenze. Fra paesaggio e patrimonio, a 360 gradi il pensiero di un osservatore sempre scomodo
Il paesaggio e il patrimonio storico e artistico dell’Italia. Questo il tema del primo appuntamento di un ciclo che l’American Academy in Rome ha progettato per l’anno 2014/2015, intitolato Monuments in the Contemporary World/Monumenti nel mondo contemporaneo. Protagonista, il 22 settembre a Roma, a Villa Aurelia, il professor Andrea Carandini: settantasettenne archeologo di fama internazionale, dal 2009 al 2012 presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, da un anno e mezzo presidente del FAI Fondo per l’Ambiente Italiano, promotore dell’appuntamento insieme all’AAR. Non ci siamo fatti sfuggire l’occasione per interrogarlo sui temi caldi di paesaggio, patrimonio, ambiente, riforma del Ministero, salvaguardia di Pompei. Ecco l’intervista.
Paesaggio e patrimonio. In che misura si influenzano reciprocamente?
Ambiente, paesaggio, patrimonio storico e patrimonio artistico formano un’unità inscindibile. L’ambiente è il risvolto naturalistico del paesaggio, il paesaggio è il risvolto culturale dell’ambiente. E il paesaggio è fatto di prodotti umani, di culture, di strade, di costruzioni, di manufatti storici e artistici, per cui il tutto è in qualche modo legato, in Italia. Questo fa sì che il problema sia molto, molto complesso, con le intere forze della Repubblica che devono essere combinate e cooperanti, a partire dallo Stato, agli Enti Locali, le associazioni, le fondazioni private, che possono contribuire alla salvezza di questo patrimonio.
E in queste dinamiche, lei dove colloca le priorità di intervento?
Se c’è una priorità di intervento basilare, è quella del dissesto idrogeologico. Risolvere le criticità su questo rappresenta una precondizione a tutto il resto: è necessario in tal senso incrementare di nuovo l’agricoltura, che riesce a mantenere gli equilibri del territorio. Infatti, da quando l’agricoltura è stata abbandonata, si sono moltiplicate le alluvioni. Poi, per la protezione paesaggistica, è fondamentale che le regioni predispongano i piani paesaggistici, in coordinamento con il Ministero. Purtroppo questi piani faticano a vedere la luce, perché gli Enti Locali vogliono la mano libera a costruire.
Ma l’edilizia è un veicolo di sviluppo e crescita economica, comunque. Mica si può bloccare.
Infatti noi dobbiamo semmai ristrutturare ciò che è già costruito, ma non dobbiamo più sottrarre neanche un metro al suolo agricolo. Fermare la smania costruttiva, orientandola nella bonifica delle periferie, nelle ristrutturazioni delle zone industriali abbandonate.
Il dissesto idrogeologico è uno dei mali che minacciano Pompei, su cui lei ha lavorato molto, anche come archeologo. Cosa bisognerebbe fare per uscire dalla logica dell’emergenza?
Soprattutto, io ho varato il Progetto Pompei quando ero presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. E trovo assolutamente scandaloso che si siano persi tre anni inutilmente, con delle lungaggini burocratiche assolutamente assurde, e ancora non si intravede la possibilità che il progetto possa partire. E nel frattempo è stato anche molto alterato: prima era un progetto di manutenzione, ora sembra orientato al restauro. Su Pompei io non posso che mettere un grandissimo punto interrogativo.
Se lei si trovasse a fare il ministro, quali azioni metterebbe in atto riguardo a Pompei?
Identificherei i responsabili di questo ritardo, che a mio avviso dovrebbero pagare per averlo creato. E riporterei l’attenzione primaria sulla manutenzione di Pompei, non sul restauro, come del resto era previsto inizialmente. Su queste basi, del resto, ottenemmo anche i fondi europei. Ora, l’attuale ministro si è trovato davanti una serie di stati di fatto, di assurdità messe in atto, e sta cercando di salvare il salvabile, ma è difficile salvare un progetto che parte come mal impostato. Basta dire che tutto l’aspetto conoscitivo, che deve precedere qualsiasi intervento, è invece stato previsto come ultimo atto. C’è molta insensatezza, e molte gravi responsabilità si concentrano nei precedenti governi, degli ultimi tre anni…
Molti sono stati positivamente sorpresi dall’attivismo del Ministro Franceschini in questi primi sei mesi. Qual è il suo giudizio?
Sì, mi pare una persona di buona volontà. Il mio giudizio, più volte espresso, è in linea generale positivo, pur con una serie di osservazioni su singoli punti. Io mi voglio ben distinguere da quelle posizioni per cui nulla si deve mai muovere, nulla si deve mai cambiare, tutto deve restare sempre come era, visto che i risultati dicono che qualcosa da cambiare, c’è. E mi pare che nella riforma Franceschini, una logica ci sia, e nelle sue linee generali l’ho appoggiata…
Lei ha vissuto dall’interno le dinamiche amministrative, come presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Crede che quella ministeriale sia una struttura riformabile? In che termini?
Tutto è riformabile. Il problema è che in Italia tutte le corporazioni, quali esse siano, non vogliono che si muova un dito, e quindi il Paese ristagna. Ci sono enormi resistenze mentali: e questo in tutti i settori, non in particolare nei Beni Culturali. L’Italia non si rende conto che si deve adeguare a tempi diversi, che non sono più quelli degli anni Settanta. Ma sono fiducioso che alla lunga il Paese si adeguerà, perché altrimenti perirà…
Anche il primo ministro Renzi si è mostrato più volte attendo a questi temi, mettendo in particolare nel mirino le soprintendenze…
Io su questo non sono completamente d’accordo. Penso che le soprintendenze, come tutte le creazioni umane, si possano rivedere, riformare, migliorare: però resto assolutamente convinto che la tutela debba rimanere in mano allo stato centrale. Perché se noi passassimo la tutela ai sindaci, o alle Regioni, il territorio sarebbe messo ancora di più a ferro e fuoco.
E come giudica la possibilità per alcuni musei di potersi dotare di direttori esterni?
Ottima. Penso al Museo Egizio di Torino, che ha richiamato da fuori un italiano che però lavorava da tanto tempo in Olanda [Christian Greco, ndr], e si sta rivelando un ottimo direttore di museo
Parliamo del suo nuovo incarico. Linee guida su cui si basano i suoi futuri programmi al FAI…
È impossibile esporre i nostri progetti in questa sede, ma c’è un elemento che mi piace sottolineare. Un tempo noi davamo molta importanza alla cura del monumento: ora dobbiamo riservare altrettanta cura alle esigenze del pubblico, che è stato molto sottovalutato…
Massimo Mattioli
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