Le 512 Hours di Marina Abramovic. Cronistoria di un’esperienza personale
Reportage da Londra, dove quest’estate sono andate in scena le 512 ore di Marina Abramovic alla Serpentine Gallery. Lo scrive un inviato d’eccezione: Eugenio Viola. Fra conta del riso e attraversamenti sciamanici.
512 Hours è l’ultimo lavoro di Marina Abramović (Belgrado, 1946) presentato alla Serpentine Gallery di Londra, ma soprattutto è il primo in cui, dopo The Artist Is Present, l’artista si è rimessa direttamente in gioco, con e per il suo pubblico.
Volutamente arrivo alla Serpentine Gallery senza aver letto alcun commento, né di come si svolge l’azione né del pandemonio mediatico che ormai, inevitabilmente, accompagna le gesta della Grand Dame della performance e che anche in questo caso, giocando d’anticipo, sono iniziate ben prima l’inizio di questo lavoro. Mi basta conoscere il titolo, che recita secco, inequivocabile: 512 Hours, ovvero l’ammontare delle ore che l’artista passerà alla Serpentine Gallery, coincidente con la totalità del tempo di apertura della mostra stessa.
Il concetto è chiaro: l’artista è presente, sempre, a se stessa e a quanti decideranno di esperire quest’esperienza, come già in occasione di The Artist Is Present, azione oramai appartenente all’epica massmediatica e conseguentemente traghettata nell’immaginario collettivo, la più lunga, ad oggi, mai realizzata da Marina, in occasione della sua poderosa retrospettiva al MoMA, che significativamente portava lo stesso titolo.
Devo ammettere che numerosi pensieri mi affollano la mente, sono finanche emozionato, penso di poter godere di quest’esperienza come un visitatore curioso e sicuramente esigente, ma con un approccio diverso da quello di “inviato speciale”, in cui il mio ruolo mi relegava, l’ultima volta che ho avuto la possibilità di lavorare con Marina, in occasione di The Abramović Method al PAC, curata da Diego Sileo con lo scrivente, nel 2012. Per ovviare a questa dicotomia insanabile, che sovente mi accompagna, decido di andarci due volte: la prima mi concedo il lusso dell’esperienza in maniera emotiva, empatica, solitaria; la seconda dedicata a “studiare” il “meccanismo” del lavoro e a osservare le reazioni del pubblico.
Con piglio deciso mi appropinquo al padiglione della Serpentine, una lunga fila di persone attende di entrare, comprendo che è parte integrante dell’esperienza, è funzionale ad accrescere e stimolare la curiosità e l’aspettativa. Un assistente premuroso, sulla soglia, mi approccia per dirmi quello che, inevitabilmente, ho già intuito: scorgo gli armadietti in cui devo lasciare i miei effetti personali e tutto quello che può ricordarmi il trascorrere, inesorabile, del tempo. Un paio di cuffie mi isoleranno dal rumore esterno. Un incipit che non può non rimandarmi a quello di The Abramović Method.
Una volta dentro, scorgo Marina accogliere e accompagnare i visitatori, i suoi assistenti smistano i flussi di pubblico all’interno della struttura, alla scoperta dell’esperienza: tre ambienti comunicanti, in cui le azioni, come nel Metodo Abramović, sono scandite dalla riproposizione simbolica dei tre movimenti basilari che appartengono all’essere umano – lo stare in piedi, seduti e distesi.
Nell’ambiente centrale si accampa una pedana: le persone possono stare in piedi e catalizzare la propria energia. Intorno, alcune sedie invitano a sedersi e a guardare. Completano lo scenario che accoglie i visitatori una serie di tavolini in cui si può procedere, se lo si desidera, all’esercizio della conta del riso, ma al momento non ci faccio troppo caso: sono stato “avvistato”, Marina mi prende per mano e mi sta già accompagnando in un’altra sala.
La percorriamo insieme, in maniera lenta e cadenzata, senza fretta alcuna: Mi sta instradando nella percezione fisica ed empatica dello spazio. Quasi senza accorgermene, i nostri passi si sono sincronizzati. La sala è completamente spoglia, unica eccezione alcuni cartoncini affissi al muro, i cui colori rispondono ai principi della cromoterapia e che i visitatori, in piedi o seduti, possono decidere di contemplare. Dopo aver attraversato la sala da parte a parte numerose volte, Marina, tenendomi sempre per mano, mi riaccompagna nella sala centrale, mi posiziona sulla pedana, mi accarezza la schiena per poi lasciarmi lì, in meditazione. La rincontrerò solo all’uscita. Nel frattempo sono concentrato al centro dell’ambiente, percepisco la luce che mi irradia dal lucernario sovrastante la pedana, stringo un contatto all’improvviso, spontaneamente, prendendomi per mano con le persone che stanno condividendo, in quello stesso momento, quella porzione di spazio con me. Decido poi di cimentarmi nella conta del riso, un’operazione a prima vista banale e che si apparenta all’irrazionale, una volta realizzata l’impossibilità di portarla “scientificamente” a compimento: mi è già palese dopo aver contato soltanto i primi cento chicchi, confrontandone la mole insignificante con la quantità che mi resta da calcolare. Opto per rivisitare l’esercizio nella “semplice” divisione dei chicchi bianchi dalle lenticchie ad essi mischiate, credendo che sia l’unica strada quanto meno percorribile. È un lavoro ugualmente lunghissimo o almeno mi sembra tale.
Di tanto in tanto, per rincuorarmi, osservo i miei due vicini intenti nella stessa impresa, seduti da prima e quindi più avanti di me nell’esercizio, cui tutti e tre, devo dire, ci dedichiamo con accanimento: li vedo creare superfici, mandala in miniatura che spuntano sul tavolo o sul foglio bianco consegnatoci dai solerti assistenti, una volta seduti. Devo dire che anch’io sto riempiendo in maniera creativa il mio foglio col riso. D’altronde, i conti non sono mai stati il mio forte… Ad ogni modo è tutto inutile, non appena alzato, lo stesso assistente che mi ha accolto provvederà a riportare il caos in quell’ordine da me faticosamente realizzato, con la stessa solerzia con cui mi ha consegnato matita e foglio. Inesorabile è già pronto ad accogliere il prossimo avventore. In un istante tutto il mio lavoro è distrutto, mi sembra quasi una metafora della vita stessa e della sua irriducibile caducità… Ammetto tuttavia che per concentrarsi, per immettersi in una dimensione “altra”, è un esercizio che ha funzionato.
Spossato da tanta “fatica” – non sono neanche una persona troppo metodica – alla fine mi ritiro nell’ultimo ambiente, in cui sono disposte una serie di brande da campo, le cui coperte rimandano agli stessi colori “cromoterapici” dei cartoncini del primo ambiente. Scelgo una branda viola, a me cromaticamente affine, mi avvicino, tolgo le scarpe, mi copro e posso finalmente riposare. Credo, ma non ne sono completamente sicuro, di essermi a un certo punto addormentato, quanto meno assopito, poiché è ancora un assistente che mi invita a iniziare a prepararmi, lo spazio sta chiudendo… Mi rendo conto che sono entrato alle 14.30 e sono già le 18. Non ho percepito lo scorrere del tempo, esco un po’ stordito, e già mi ritrovo a rimuginare sull’esperienza.
Sono dunque preparato, qualche giorno dopo, ad affrontare di nuovo 512 Hours. Il mio approccio è volutamente più critico e meno emozionale; devo concentrarmi adesso sulle reazioni degli altri, sul loro modo di interagire all’interno di un lavoro che ancora una volta è difficile da catalogare: non è una mostra, non è, stricto sensu, una performance, ma si configura in maniera decisa come esperienza basata sul flusso di energia fra l’artista e il suo pubblico, in un movimento ondivago di espansione energetica della percezione. D’altronde chi conosce Marina è consapevole che durante le sue azioni si avverte, palpabile, questo scambio, creato da uno scarto differenziale, sancito nel passaggio dall’opera all’azione.
È ancora una volta da The Artist Is Present che bisogna partire per contestualizzare 512 Hours nell’ambito della sua ultima ricerca, volta all’abbattimento del diaframma tra artista e pubblico, rilanciato da The Abramović Method e qui riproposto in maniera più radicale, ponendo meno enfasi sugli oggetti a vantaggio di un maggior scambio osmotico, tra artista e pubblico, pubblico e ambiente. Le tre stazioni, che ripropongono le tre posizioni dell’essere umano (in movimento, seduto e disteso), sono qui ribadite con maggiore essenzialità: le sedie impreziosite dai minerali hanno ceduto il posto a delle sedie di legno ordinarie: le torri coi magneti a una pedana minimale, i letti di legno coi minerali a brande militari, seppure rivisitate in ossequio ai dettami della cromoterapia. Quasi a compensare le ragioni di una differenza, Marina è sempre presente, per tutto il tempo, per l’intera durata dell’esperienza: The Artist Is Present, come al MoMA. Lo schema è ad ogni modo riproposto in maniera meno rigida: alla frontalità ieratica dell’azione al MoMA si sostituisce il fluire degli eventi, in continua evoluzione, e senza alcuna premeditazione. Basti pensare che la seconda volta che torno alla Serpentine Gallery, lo scenario è stato modificato, è ancora più spoglio: i cartoncini colorati sono spariti dalle pareti, come i tavolini col riso; le persone che la prima volta erano accompagnate nella percezione dello spazio vagano adesso bendate all’interno dello stesso ambiente. Non esiste più, infine, il diaframma tra pubblico spettatore e pubblico partecipante, come in The Artist Is Present e The Abramović Method, ma ogni singolo partecipante, artista inclusa, converge alla ricerca di uno spazio carismatico in cui tutti, Marina e il suo pubblico, diventano, allo stesso tempo, conduttori e ricettori di energia.
Eugenio Viola
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati