L’Italia si fa un selfie. Gabriele Salvatores e il realismo di Italy in a Day
Dopo la première a Venezia, il film-esperimento di Gabriele Salvatores arriva in tv, grazie ad un accordo con la Rai che accoglie entusiasta questo maxi ritratto dell’Italia e degli italiani. Ma l’effetto commozione non arriva e anche il senso del progetto sfugge. Un autoscatto del Paese che non ci ha convinto. Ecco perchè...
Cita Ėjzenštejn, Gabriele Salvatores, durante la chiacchierata introduttiva al suo Italy in a Day, in collegamento con “Che Tempo che fa”. Il film, appena presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, approda in prima serata su Rai 3, in forma di evento speciale: niente pubblicità, per non disturbare il flusso visivo, e un ampio cammeo di presentazione nel salotto della premiata ditta Fazio-Gramellini.
Ėjzenštejn, dicevamo. Il geniale innovatore del linguaggio cinematografico, che scoprì e capì l’importanza del montaggio, sviscerandolo nelle sue svariate forme estetiche e concettuali. Una citazione pretenziosa, utile a spiegare all’italiano medio (già che siamo in tema) che un film può anche vedere la luce senza che il regista firmi un solo ciak: quel che conta è come si utilizza il materiale a disposizione.
Il paragone col maestro russo si ferma qui. Ma il tema del montaggio c’entra eccome. Italy in Day è infatti un titanico found collage, che da una catasta di frammenti prova a tirar fuori un’opera compiuta. Estetica del postproduction ed eclissi autoriale: storia vecchia, declinata qui in salsa social, digitale, techno-pop.
Salvatores, dunque, non scrive, non gira, ma orchestra. Nemmeno l’idea è sua. Il concept, adattato al contesto nazionale, è quello di Life in a day di Kevin Macdonald, patrocinato – come la versione italiana – da Ridley Scott. Si tratta dunque di rappresentare un Paese attraverso le voci e gli sguardi di uno stuolo di cittadini, disposti a filmare una loro giornata con mezzi amatoriali: smartphone, tablet, videocamere, apparecchi low-fi, immortalano momenti e pensieri della folla, nell’arco di 24 ore. Giorno stabilito: 26 ottobre 2013. Alla call hanno risposto 44mila persone, per un totale di 2.200 ore di girato, che il regista ha passato in rassegna, selezionando e cucendo gli spezzoni più interessanti.
Si parte dalla notte, raccontata da scene di spensierata movida cittadina, e si va avanti tra camere dal letto, guanciali, alcove, e poi albe, caffè al mattino, giornali freschi di stampa, il latte appena munto, fornai al lavoro e saracinesche spalancate. Decolla così questo sabato collettivo, grimaldello per una fulminea celebrità warholiana, procedendo fino alla notte seguente attraverso un puzzle di eventi comuni e brevissimi flash: una passeggiata nel buio, una confessione solitaria, la nascita di un figlio, l’assistenza a un malato terminale, la prima lezione di guida, il viaggio di un astronauta, la memoria di un alluvionato, la fuga dei cervelli, qualcuno seduto sul water, qualcun altro che addenta un panino; e la vita in parrocchia, la vita in teatro, la vita su una nave e quella in un’azienda sottratta alla morsa della mafia.
E poi bambini e neonati in quantità, a voler indicare – spiega il regista – il senso smarrito del futuro. Più che altro un auspicio, per un Paese con un tasso di natalità in caduta verticale. Pochi invece i vecchi, che a girare un video col cellulare non sono capaci, e che spuntano qui e là grazie al pensiero di un figlio, di un nipote, di un infermiere.
Immancabili, tra i topos dei buoni sentimenti e della speranza (che è l’ultima a morire), Papa Francesco, la famiglia-manifesto per l’adozione gay, il giovane che lascia la sua terra in cerca di fortuna, la promessa di matrimonio con l’anello della nonna, qualche angolo di monnezza e qualche manifestazione di piazza, un raduno freak sui prati, senza dimenticare l’annuncio fondamentale: “mamma, papà… tra nove mesi sarete nonni!”. E via con lacrime, abbracci e gridolini.
Pochi i paesaggi – tutti da copertina – e molti gli interni domestici, per una narrazione che insiste sul coté privato e quasi sempre allegro de ‘laggente’. Perché Italy in a day, nonostante il refrain del lavoro che manca, della crisi, del precariato, non riesce a non tradursi in una spremuta d’ottimismo: “Siamo fantastici, il mondo è qualcosa di spettacolare, l’essere umano è incredibile“, chiosa sul finire un giovanotto, galvanizzato dalla sfida cinematografica e da quella esistenziale.
Insomma, dopo un’ora e mezza di insalata democratica, il film assomiglia a un unico, noioso e piuttosto inutile selfie nazionale. Autoscatto in movimento che celebra il qualunque ed il comunque, salvato in corner da alcuni momenti d’autenticità, ma nel complesso tendente alla melassa. L’Italia degli ingenui, degli onesti, dei forti e degli incolpevoli.
E se il senso sta tutto nell’operazione mosaico, l’unione delle micro tessere partorisce un’immagine sfilacciata, inzuppata col nettare del banale. Tutti si guardano, si riconoscono, si svelano, si espongono nella loro quotidianità fatta di niente. Come nella versione più anestetica di Facebook, quella dei videini da salotto, delle foto in spiaggia, degli status compulsivi con cui dipingersi, minuto per minuto, per come si è o si vorrebbe essere. Italy in a Day assomiglia a tutto questo. Nella forma e nel contenuto. Il Paese si fotografa, si posiziona sul suo wall, si riassume in 140 caratteri e si consegna alla memoria di una smart card.
Ma Gabriele Salvatores ci prende gusto e ipotizza la nascita di una nouvelle vague: “Forse questo è il neorealismo di oggi”, dice ancora a un ammiratissimo Fazio, “questa possibilità di mettere insieme la cultura della condivisione, di internet, con uno sguardo autoriale”. Un nuovo realismo che passi per Youtube ed un iPhone, raccattando pezzetti di velocissimo sharing e componendo il tutto a partire dal taglio di un regista. Più che neorealismo, potremmo dire un ‘subrealismo’: la fatidica proliferazione di immagini virtuali, di simulacri, di informazioni più o meno inessenziali, da risolvere in un rassicurante blob.
E se il realismo che rivoluzionò certo cinema, certa pittura, certa letteratura, viveva dello spessore delle storie, tra denuncia, profondità, crudezza, sentimento e rigore del dato, quello di cui parla Salvatores pare andare nella direzione opposta. L’inconsistenza della superficie, l’estetica del dilettantismo, il conforto del network (non più ‘comunità’ ma ‘global trend’), l’ipertrofia del mezzo tecnologico, che diventa la chiave per esserci e non sparire.
L’unica trama possibile? Quella del grande selfie: pensiero residuale e autoreferenziale, che raccatta le proprie scorie per tramutarle in istantanee del presente. Mentre l’esercizio del montaggio – vinto dalla retorica del web – apparecchia, assolve, celebra e semplifica, incorniciando il ritratto ruffiano di un’Italia che non è. In soffitta resta l’idea di una drammaturgia capace d’attraversare la Storia e declinarla – davvero – nei milioni di biografie in transito.
Così, l’aspetto più interessante di questo film si rivela nel suo essere testimonianza: non un ritratto cinematografico degli Italiani, ma una lezione sul mondo dei social media, sulla nostra volontà di auto rappresentazione, sul nostro rapporto con la tecnologia e con l’immagine che abbiamo di noi stessi. Costume, più che altro. Così lontano da quel realismo che Siegfried Kracauer, nella sua Teoria del film (1960), evocava come “scoperta delle meraviglie della vita quotidiana”: un cinema capace, in quanto linguaggio, di intercettare “il fremito del mondo più alto nella sudicia pozzanghera”. Tra riscatto poetico e verità riflessa.
Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati