Dopo la riuscita parentesi web-oriented di Welcome To New York, AbelFerrara abbandona i lidi della clandestinità per rientrare dalla porta d’ingresso principale con Pasolini, ennesima della sua ormai quarantennale carriera cinematografica storia di un “peccatore” alla prese con la redenzione. Presentato in concorso a Venezia 71, l’opera sugli ultimi giorni di vita del poeta di Casarsa è un film piccolo, piccolissimo, privato, nella misura in cui si stringe visceralmente attorno alla figura e alle parole di un personaggio grande, grandissimo, quasi enorme. Se Deveraux/Strauss-Kahn rappresentava alla perfezione i piani alti della piramide sociale, Pasolini ne incarna a pieno tutte le contraddizioni.
Nella sua ultima intervista, rilasciata (a pezzi) a Furio Colombo e apparsa sulle colonne de La Stampa circa una settimana dopo quel fatidico 1° novembre 1975, lo scrittore bolognese disse: “Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri”. Ferrara non le cita direttamente, ma si rifà esplicitamente a esse in almeno due frangenti, come quando Pasolini (Willem Dafoe) chiede alla cugina Graziella Chiarcossi (Giada Colagrande) di inserire alcuni dei suoi appunti nel discorso che avrebbe dovuto tenere al congresso dei Radicali (“Quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese”); oppure quando, poco più avanti nella narrazione, inquadra una copia de La scomparsa di Majorana, romanzo scritto in quell’anno da un altro eretico di professione, Leonardo Sciascia.
Frammenti documentali, spezzoni letterari riassemblati, ricordi personali; Ferrara gira con quello che resta delle cose, cucendo i brandelli, del girato, del montato e della carne viva, prendendo le mosse delle opere incompiute di Pasolini, da Porno-Teo-Kolossal a Petrolio, sino ad arrivare agli scorci di una Roma “rubata”, ritratta contro ogni autorizzazione istituzionale, ogni permesso, ogni possibilità di grande bellezza. Lampi dell’EUR, sprazzi di Termini, la cupola di San Paolo, il Colosseo funereo retaggio di “un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”, lo squallore di una lingua di spiaggia a Ostia. Ogni cosa, ogni rapporto, diventa così qualcosa d’altro, assumendo le sembianze della metropoli notturna di King of New York, un universo parallelo sospeso tra incubo ed elegia: ed è proprio lì che si trova Piramide, città altra, regno dell’omosessualità in costante celebrazione orgiastica di sé stessa.
Così il regista newyorchese e lo sceneggiatore Maurizio Braucci (suo lo script di Anime Nere, opera di Francesco Munzi anch’essa in cartellone a Venezia) ricostruiscono e donano senso agli ultimi giorni di Pier Paolo Pasolini, tramite un transfert di quello che Pasolini stesso aveva teorizzato come cinema di poesia, metodo dialetticamente e radicalmente opposto alle forme classiche e ampiamente riconoscibili del film-inchiesta o del biopic. Ferrara, come Rossellini, filma convertendo gli evidenti limiti materiali in un discorso chiuso e spiazzante, in un segno di prorompente vitalità, anteponendo a un’esigenza linguistica una di tipo stilistico, facendo ricorso a tutti quelli sono gli stilemi par excellence del cinema pasoliniano: soggettiva libera indiretta nelle inquadrature, location notturna, continui riferimenti e allusioni doppiamente simbolici, sovrimpressioni. Mattone dopo mattone Ferrara plasma un personaggio che siede idealmente accanto tanto all’Harvey Keitel de Il cattivo tenente quanto al Matthew Modine di Mary.
Un gioco di specchi multidimensionale, in cui diviene centrale la questione della lingua parlata: con coraggiosa e folle determinazione registica, si passa dall’inglese del Pasolini intellettuale al dialetto dei ragazzi di vita, trasformando un limite in una lucida dichiarazione morale dal sottotesto dichiaratamente politico. Scelta ardua, provocante e poco attraente, che restituisce l’impressione di un disagio diffuso, di un’aporia generale, di uno straniamento collettivo. Fino al superlativo funanbolismo di Ninetto Davoli che fa Eduardo De Filippo parlando in romanesco e di Riccardo Scamarcio che fa Davoli parlando in napoletano. È il caos totale, quello a cui Ferrara si appiglia per chiudere il cerchio e trasformare Pasolini in un inferno tutto sommato abitabile, ancora trasformabile con la forza dell’immaginazione, ancora filmabile. Il tutto senza mai fare confusione tra verità e verosimiglianza. Come fece Pasolini, appunto.
Marcello Rossi
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