Provocare la memoria. Intervista con il Leone d’oro Jan Lauwers
Jan Lauwers, neo-eletto Leone d'oro alla carriera alla Biennale di Venezia, è il fondatore, insieme alla coreografa Grace Ellen Barkey, della compagnia teatrale belga Needcompany. Lo abbiamo incontrato a Bolzano, dove ha inaugurato il festival Transart con “Just for Bozen”, un lavoro tra i più belli dell’autunno teatrale. Un collage di dichiarazioni di poetiche, esempi, frammenti sconnessi di forte densità visiva e intellettuale, esercizi attraverso cui indagare la relazione tra performer e spettatore e mettere alla prova le più diverse concezioni dello strumento teatrale.
Nel concentrarsi sul dettaglio, sul quotidiano, assillata dall’attualità, sembra che l’arte, in particolare quella teatrale, rinunci oggi alla splendida incoscienza di confrontarsi con il grande, con il generale, con l’uomo. Illustri eccezioni a parte (Needcompany è una di queste). Quale contenuto originale – nel senso di radicale, fondativo, universale – può proporre l’arte dei nostri giorni?
Lei solleva una questione centrale. Abitiamo un mondo pieno di problematiche: la crisi finanziaria, Gaza, l’Ucraina, le controversie politiche, i temi dell’ecologia. È comprensibile la diffusa tendenza a chiedere all’artista di fare spettacolo per offrire soluzioni a una situazione così complicata. Tuttavia, se l’arte si riducesse a questo, se si concentrasse sul cercare soluzioni concrete per i singoli problemi locali, diventerebbe politica (o moda), e io credo invece che oggi proprio tutto sia politica eccetto l’arte stessa.
L’arte non fa parte del tutto, è qualcosa di più grande, che si colloca al di sopra, oltre l’aneddoto, che rischia piuttosto di diventare solo una pericolosa forma di prigionia per l’arte stessa. Michelangelo non ritrae aneddoti, non racconta l’attualità, racconta l’uomo, dà ossigeno all’umanità. I capolavori sono così: non producono macromovimenti nella società, ma microcambiamenti nell’esistenza di ciascuno.
E il teatro?
Il teatro, nello specifico, credo debba porsi domande di respiro ampio circa il suo esistere all’interno della società. Spesso invece il contemporaneo si interroga su come mettere in scena una storia piuttosto che sul perché e sul quando.
Quali filosofi frequenta?
Wittgenstein e Nietzsche sono stati pensatori importanti nella mia formazione. Oggi leggo molto Zizek. Ma se mi chiede quale sia il mio riferimento, le rispondo che la considerazione che ho di me come artista si inscrive nella visione di Adorno. Il teatro è per me qualcosa di estremamente materico e materiale.
“Molte delle mie opere plastiche sono nate o sono state concepite in una stanza d’albergo. Ci sono momenti in cui il tempo necessario per andare da un luogo a un altro ci protegge dalla fredda inanità della vita quotidiana. Proprio in questi momenti le cose possono accadere nella più totale libertà”: le sue opere nascono spesso in viaggio per essere poi messe in scena da una compagnia in cui agiscono performer di lingue diverse. In questi due dati vedo una medesima tensione verso la condizione di “inappartenenza” come stato di potenziale libertà. Il tema dell’identità allora non è più solo di natura politica, è più profondo, ontologico, filosofico…
Ho scoperto che i tempi d’attesa sono fondamentali, sono quelli in cui la creatività trova la sua condizione ottimale. Il tempo per un artista non è mai perso, mentre aspetta qualcuno sta lavorando, mentre è in aereo sta lavorando, mentre guida verso un luogo sta lavorando. L’artista non smette mai di lavorare perché il suo lavoro è completamente sovrapposto alla sua vita. Sono la stessa cosa.
Quanto all’identità: è vero, io la distruggo continuamente. Sono nato in una terra in cui si parlano due lingue. Scrivo i testi degli spettacoli in fiammingo, e subito dopo vengono tradotti, generalmente in inglese e francese, perché possano essere recitati da performer che parlano altre lingue. Non sento mai quello che scrivo pronunciato nell’idioma originale; la rinuncia alla propria identità linguistica sarebbe stata una cosa impensabile per chiunque negli Anni Ottanta. Invece io credo che sia estremamente interessante. Nel riversare le mie parole in altre lingue ho scoperto le diverse strutture di pensiero che esse nascondono. C’è qualcosa in quest’arte che rende possibile una comunicazione universale, è la scelta stessa di andare a teatro, la ritualità dell’atto scenico. È una lingua franca che in politica e negli affari non esiste. Indagare questa possibilità attraverso il teatro, per me che arrivavo dalle arti visive, è diventato sempre più importante.
Nei suoi interventi teorici ribadisce spesso la necessità di sostituire al principio della rappresentazione quello della presentazione, un’istanza che sembra attraversare come un filo rosso le poetiche eccellenti della scena contemporanea. Ogni artista, tuttavia arriva a un certo esito formale mosso da impellenze originali. Cosa fonda in Jan Lauwers l’urgenza di rompere la forma-teatro?
Premetto che io credo che delle poetiche di cui parla ce ne siano veramente poche, che il teatro sia ancora troppo mero intrattenimento e che nell’economia dei media quello teatrale è ancora povero dal punto di vista artistico; e non intendo con questo ragionare in termini di cosa sia convenzione e cosa sia avanguardia. Per me l’artista è colui che interroga il mezzo che usa.
Quando parlo di rappresentazione e presentazione intendo fare riferimento all’irripetibilità dell’accadimento teatrale, che nasce dal rapporto tra performer e spettatore. Lo “spazio vuoto” di cui parla Peter Brook per me non esiste, perché viene riempito sempre dallo sguardo dello spettatore. La sua teoria secondo cui il teatro nasce già nel momento in cui un uomo attraversa il palcoscenico vuoto è sbagliata. Deve necessariamente esistere un rapporto tra chi guarda e chi cammina, altrimenti non c’è teatro ma perversione.
Che cos’è Just for Bozen?
Con Just for Bozen proviamo a porre domande giuste nel luogo sbagliato. Cerchiamo di commettere degli sbagli per svelarne degli altri, perché l’arte secondo noi è lo spazio fra due errori. Vogliamo che il pubblico esca da teatro con ancora più domande di quelle che poniamo noi nelle tre parti di cui si compone lo spettacolo.
Perché “solo per Bolzano”?
Perché lo spettacolo consiste esattamente nella relazione tra i performer della compagnia e gli specifici spettatori di Bolzano che vengono a teatro in questa specifica sera, con la loro storia e il loro background. Questa unicità non è riproducibile, evidentemente.
“L’arte vera comincia quando esci, quando l’immagine di ciò che hai visto ritorna nella mente perché ha provocato una memoria, se non rimane alcuna memoria vuol dire che era solo intrattenimento”: sono parole sue. Come si “provoca memoria”?
Il tempo. In una galleria puoi dedicare a un quadro tutto il tempo che ti serve perché nella tua mente sia visibile anche quando l’oggetto non sarà più di fronte a te. In teatro invece le porte sono chiuse, è la performance a dettare i tempi. La specifica durata di un’azione, di un’immagine, determina la tua memoria della stessa. In Just for Bozen c’è proprio un esercizio sul tempo di questo tipo.
[TRANSART_14] Opening + Just for Bozen from Festival Transart on Vimeo.
D’altronde l’immagine, per lei che è artista visivo prima che regista, è il suo linguaggio d’elezione…
Sono fiammingo, dunque segnato da un forte retroterra cattolico, sebbene io non sia più cattolico da tempo. Gli artisti cattolici sono allenati all’uso dell’immagine. Cristo sulla croce è la prima immagine che vediamo da bambini in chiesa. La religione cristiana cattolica, a differenza di tutte le altre, tende proprio a mostrare il dolore, e quindi allena alla visione del sentimento, nel caso specifico di quello della sofferenza.
Oggi si predica la cultura della contaminazione ma coltiviamo la retorica dell’iperspecializzazione, della scuola per artisti che allena registi o drammaturghi o attori. È veramente questo l’apprendistato giusto?
No! Fuck the format! Io sono assolutamente contrario a questa formula. Come dice lei, il sistema propone la specializzazione, ma la specializzazione porta alla degenerazione. È una legge fisica, non è sano cancellare l’universalismo nell’arte. Io ripeto sempre ai miei allievi: non vi specializzate! Durante i miei laboratori dico: per diventare artisti voi credete di dover guardare solo qui in questo momento. Invece no, guardate lì, fuori, altrove. Guardate al mondo intero.
Rossella Menna
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