Sgomberato il Cinema America. Adesso l’amministrazione di Roma si dimostri matura
Dopo due anni dal debutto - e dopo qualche settimana dalla fine dell'esperienza del Teatro Valle Occupato - si conclude anche l'occupazione del Cinema America. Un buon segno per la legalità a Roma e una speranza che questa legalità non si concluda in se stessa, ma sia spunto per un rilancio culturale che la città deve cogliere, pena un’immersione in paludi di marginalità a livello europeo e italiano.
Se al posto del Valle Occupato nascerà all’interno di quella sala un palcoscenico di qualità gestito dal Teatro di Roma, allora lo sgombero del Valle – sacrosanto come è sacrosanto ogni ripristino della legalità – avrà avuto un senso. Se al posto dell’esperienza (decisamente più discutibile quanto a contenuti culturali) del Cinema America si riuscirà a ottenere spazi culturali e interventi di qualità, allora la fine dell’America Occupato – sacrosanta pure questa – avrà avuto un senso.
Viceversa, se l’amministrazione non riuscirà a dare una vocazione, non riuscirà a sfruttare e a volgere in positivo il ripristino della legalità in questi spazi, non farà altro che dare fiato alle bocche dei “hai visto? Cosa ti avevo detto?“. Finendo per far credere a molti, se non a tutti, che il percorso che porta all’attivismo e alla produzione culturale passi necessariamente per l’illegalità. Non è e non può essere così. Sia al Valle che all’America la città di Roma si gioca insomma la sua credibilità di capitale occidentale, di città dove le iniziative di qualità nascono in un contesto di rispetto di regole condivise e non di soprusi, occupazioni, violenze e furti di immobili, di bollette, di utenze. Sarà un guaio, insomma, se, pur non avendo fatto gli occupanti chissà quale rivoluzione culturale, il Comune riuscirà a fare ancor meno di loro. Si rischia grosso. E rischia grosso in questo senso l’assessore alla cultura del Comune di Roma Giovanna Marinelli, che tuttavia sembra perfettamente consapevole di questo.
Il Cinema America, costruito da Angelo di Castro negli Anni Cinquanta e decorato con mosaici di Pietro Cascella e Anna Maria Cesarini Sforza, era abbandonato dal 1999. La proprietà voleva – come è successo per mille altri cinema in Italia, senza entrare nel merito se questa sia una cosa positiva, negativa, inevitabile – trasformarlo in residenze. L’occupazione nacque per resistere a questa trasformazione urbana, nonostante la trasformazione urbana, a quanto pare, avesse ottenuto permessi di ogni sorta. Per certi versi l’occupazione ha ottenuto i suoi risultati perché, nelle settimane passate, il ministro Dario Franceschini ha annunciato un vincolo sull’edificio che così, in barba alle aspettative della proprietà, potrebbe non essere più trasformabile. Rischiando, in quanto non valorizzabile economicamente, di ricadere ulteriormente nell’abbandono. Secondo la società proprietaria del cinema, il vincolo ancora non è operativo, secondo il Comune di Roma invece sì. Si tratterà di capire di che tipo di vincolo si parla. Un vincolo che impedisce la demolizione in toto, un vincolo che impedisce la demolizione di parte, un vincolo che tutela solo i mosaici? Tutto da verificare.
Quel che conta, ancora una volta, è constatare come la mentalità italiana riemerga in tutta la sua forza. Avendo a disposizione un’opera dismessa di un architetto secondario, con all’interno opere d’arte secondarie, qualsiasi amministrazione pubblica al mondo (al mondo!) avrebbe interloquito con la proprietà intenzionata a cambiare la destinazione d’uso con toni che più o meno avrebbero suonato così: “Okay, puoi demolire, ma quello che mi ricostruisci sopra deve avere assai più valore di quello che costruisci. Mi chiami Norman Foster, Frank Gehry o decidi tu chi, ma l’importante è che se io perdo un’opera architettonica media, mi ritrovo con un’opera architettonica grande, che qualifica ancor più il quartiere e la città. Ah, dimenticavo, visto, caro proprietario, che stai facendo un’operazione commerciale e che ti concedo di fare case laddove io amministrazione avevo previsto un cinema da piano regolatore, allora tu mi devi cambiare questa permuta, in modo tale che con i soldi che mi dai compenso qualche altra istituzione culturale – chessò, il Macro – oggi ferma a causa di inesistenza di finanze. Allora accetti o non accetti? E nel secondo caso, mi esproprio il bene culturale e me lo gestisco io“.
Ecco, così si ragiona dovunque al mondo quando si parla di “città”. Così per la verità si è sempre ragionato, seppur empiricamente, anche in Italia. Teatri e case? Dentro il meraviglioso Teatro di Marcello, sempre a Roma, alla fine del Quattrocento spalti e arcate in disuso vennero trasformate in palazzi nobiliari dai Savelli, che incaricarono niente di meno che Baldassarre Peruzzi per questa trasformazione urbana. Oggi c’è parte del Teatro di Marcello, sotto, e c’è Palazzo Savelli Orsini, sopra. Se i benpensanti – quelli che oggi considerano sublime questa stratificazione architettonica – fossero vissuti allora avrebbero gridato alla speculazione.
Il nostro spread è tutto qui, non c’entrano nulla i tassi di interesse e il rapporto tra debito e prodotto interno. Il nostro spread è che abbiamo paura di evolvere e di cambiare. Il nostro spread è che riteniamo più accettabile l’illegalità – che esiste ed è tollerata solo da noi – rispetto alla trasformazione e al rischio, che sono la linfa di cui si nutrono tutti i grandi sistemi urbani che guidano il mondo.
Massimiliano Tonelli
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