All the World’s Futures, tutto sulla 56° Biennale di Venezia. Intervista a Okwui Enwezor
Un anno di tempo ancora, per costruire la prossima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. Un progetto denso, che gurda al futuro ma che si aggancia alla storia. Per riflettere sulle macerie, le utopie, le paure del presente. Okwui Enwezor ha raccontato oggi la sua Biennale
Una Biennale che parla di futuro. Un segnale esatto, di consapevolezza e di riflessione critica, per assegnare all’arte, nuovamente, un ruolo di decodifica del reale, ma anche di ricostruzione. La 56esima Esposizione Internazionale d’Arte, attesa tra un anno a Venezia, si chiamerà All the World’s Futures e si radicherà, con forza, tra i solchi ed i relitti di un paesaggio devastato, turbolento, immagine di una contemporaneità aurorale. All’orizzonte, in questo incipit di millennio, una catena di crisi economiche e geopolitiche, tra vecchi e nuovi continenti, all’ombra di una postmodernità superata – forse – ma non del tutto elaborata.
Un paesaggio di macerie, dunque: così agli occhi di molti, così nelle corde sensibili del curatore, il nigeriano Okwui Enwezor, da sempre attento all’innesto tra linguaggi dell’arte e tematiche storiche, etniche, sociali. “Le fratture che oggi ci circondano”, ha spiegato oggi alla conferenza stampa di Presentazione della Biennale, “e che abbondano in ogni angolo del panorama mondiale, rievocano le macerie evanescenti di precedenti catastrofi accumulatesi ai piedi dell’angelo della storia nell’Angelus Novus”.
Citazione raffinata, carica di potenza iconica, che riporta subito nel cuore del Novecento, con l’immagine allucinata dell’angelo di Paul Klee evocato da Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia: “L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
Eccola, la Biennale di Enwezor, raccontata oggi ai giornalisti in un susseguirsi sfavillante di input teorici e di forti suggestioni. In accordo perfetto con lo spirito del tempo: così pieno d’angoscia e bisognoso di uno scarto, di un passaggio, di un’elaborazione gloriosa e di una redenzione. Di un’idea di futuro, essenzialmente. Che nell’impalcatura espositiva appena rivelata, si risolve attraverso il paradosso di uno sguardo all’indietro, incontro ad alcuni capisaldi della storia del pensiero occidentale.
Niente nomi ed elenchi di opere, ancora. Ma una grande chiarezza tematica, per svelare struttura e atmosfere di una Biennale che ha già, a partire da oggi, un timbro, un sapore, una declinazione di umori. “La Biennale è una Mostra d’Arte, non una mostra mercato. Non basta un neutrale aggiornamento dell’elenco degli artisti più o meno giovani e noti“: parole del Presidente Paolo Baratta, che ulterioremente rimarcano la vocazione culturale di un evento chiamato, anno dopo anno, a dare conto delle dinamiche profonde del mondo, prima che di quelle dell’art system “Abbiamo, in passato, definito in vari modi la Biennale”, continua Baratta. “Oggi, di fronte ai pericoli di scivolamenti conformistici verso il noto, il consueto e il sicuro, l’abbiamo denominata la “Macchina del desiderio”. Mantenere alto il desiderio di arte. A sua volta, desiderare l’arte è riconoscerne la necessità. È, cioè, riconoscere come necessità primaria e primordiale l’impulso dell’uomo a dare forma sensibile alle utopie, alle ossessioni, alle ansie, ai desideri, al mondo ultra sensibile”.
Macchina desiderante, attivatrice di connessioni e rilevatrice di paure, di fermenti. Di utopie fragili o perenni. E se nel 2013, a fare da fuoco simbolico e visivo c’era il mitologico Libro Rosso di Jung, scelto da Massimiliano Gioni come perno concettuale della sua sinfonia di voci autorevoli e di sguardi outsider, stavolta i libri sono due: il già citato testo di Benjamin, del 1940, e il monumentale Capitale di Karl Marx. Testo fondamentale del Novecento, che il curatore non affronta come feticcio, metafora, reliquia o citazione, ma che trasforma in un dispositivo di pensiero e di visione, una vera e propria “opera d’arte” – sottratta ai polverosi dibattiti politico-economici e straniata nel mezzo di una kermesse artistica – capace di generare, a sua volta, altre opere, altre immagini, altre scritture. Saranno artisti, compositori, drammaturghi, scrittori, performer, a doversi confrontare col capolavoro di Marx, offrendone una lettura e tirandone fuori tutta l’energia potenziale – fatta di desideri, fantasmi, proiezioni – intrappolata tra le pagine e poi incarnatasi, nei decenni, attraverso forme, segni, strutture, destini di una modernità convulsa e accelerata.
Una Biennale, infine, che procederà per “filtri”. Il mastodontico palinsesto dei padiglioni (giunti ormai a quota 28) insieme alla mostra centrale, si declineranno, si scardineranno e troveranno senso grazie a una costellazione di parametri tematici, di stimoli concettuali e di illuminazioni incrociate, usati per l’appunto come filtri: da qui verrà la rapsodia di opere ed autori, orchestrata da Enwezor.
Oltre al filtro intitolato “Il capitale: una lettura dal vivo”, anche quello battezzato “Vitalità: sulla durata epica” e quello su “Il giardino del disordine”. Il primo proverà a cogliere l’anima vibrante della biennale, sviluppandosi anche lungo la direttrice del tempo, grazie a un programma di eventi e opere concepiti, sesta sosta, per tutta i sei mesi della Biennale: una sorta di teatro epico, per una mise en scène che ponga al centro del “palco” la storia e le sue proiezioni più vive, pulsanti, carnali.
L’altro, collocato nei Giardini e nel Padiglione Centrale nonché nelle Corderie, nel Giardino delle Vergini dell’Arsenale e in altri spazi selezionati a Venezia, farà della Biennale stessa una “metafora attraverso la quale esplorare l’attuale stato delle cose”. Sfruttando il concetto di ”giardino”, come luogo di confitti ed armonie, di metamorfosi e di equilibri, gli artisti raccoglieranno la sfida più grande: provare a porgere una visione del reale e delle sue forme in mutazione. Pronunciarsi intorno a un tempo che brucia e che si consuma, sfuggendo – per forza di cose – alla certezza di misure, interprtazioni, catalogazioni.
L’arte, quindi, come strumento privilegiato per cogliere l’orrore e la bellezza di un mondo costellato di macerie, e quindi affacciato sul futuro. Suggerendo direzioni, immaginando rivoluzioni. Dentro la Storia, nel cuore di una tempesta necessaria.
Helga Marsala
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