Before me and after my time. Confini temporanei e territori transitori
Angelo Bellobono ci racconta le origini e le motivazioni del suo progetto marocchino Atla(s)now e dei suoi successivi sviluppi in terra americana. Per proporre una via alternativa all’idea diffusa di “arte sociale”. Una via che passa per la pittura e cerca un percorso leggero. Che non lasci tracce…
L’unica cosa che veramente vedo è il tempo/luogo che mi contiene, lo attraverso in scomode posizioni, capovolto o in bilico, cercando il mare in una montagna e la montagna nel mare, aspettando di essere colto di sorpresa da un’onda dove meno te la aspetti, o da una slavina in un’immensa pianura. Questo procedere esclude certezze e pone interrogativi, fa elaborare ipotesi e correlazioni e scegliere traiettorie che a volte ne intersecano altre. Immaginare di svuotare un territorio di tutte le coordinate e le tracce che lo definiscono, scovare quelle non visibili e appartenenti ad esso in modo organico e indivisibile, da sempre: questo può offrire sorprese inaspettate. Percepisco il mio stare al mondo come un continuo processo di adattamento, considerando il mondo non un parco giochi funzionale solo a me stesso, ma un complesso sistema in cui coesistere; un corpo di cui sono al tempo stesso cellula, mitocondrio e virus, principio attivo e parassita. Ogni giorno la chimica dell’esistenza modifica le nostre funzioni, le nostre intenzioni e ciò che ci circonda.
In tutto questo il prodotto più difficile da condividere è la verità, perché contraddistinta da un altissimo grado di variabilità. Le verità, che nel tempo sono rimaste tali, rappresentano una piccola percentuale di quelle che ognuno di noi propaganda ogni giorno.
Questa introduzione un po’ romantica mi è necessaria per introdurre un nuovo progetto, dove la pittura ancora una volta origina da esperienze condivise e indaga la fragilità di concetti quali confine, appartenenza e identità, documentando attivamente la trasformazione di uomini e territori.
New York rimane ancora oggi uno dei più riusciti esperimenti di antropologia contemporanea; il crocevia dove vite, sogni, successi, vulnerabilità e fallimenti si incontrano e stratificano. Qui le “verità” divengono un prodotto nel quale credere strenuamente e da far fruttare in modo adeguato attraverso un mirato e costoso processo relazionale. Per una serie di coincidenze, alcune esperienze che da anni connotano la mia vita, come appunto vivere in parte a New York, si sono casualmente connesse.
La scoperta della remota unione tra gli Appalachi americani alle spalle della Grande Mela e l’Atlante marocchino, sede di Atla(s)now, piattaforma interdisciplinare condivisa che ho creato nel 2011, mi ha spinto ad indagare la storia dei primi abitanti di New York, gli Indiani Lenni Lenape, che già 10.000 anni fa popolavano “Manna Hatta – l’isola dalle molte colline”. Circa 150 milioni di anni fa queste catene montuose, oggi divise dall’Atlantico, erano una la continuità dell’altra nel grande supercontinente Pangea: da qui l’idea quindi di riconnetterle attraverso un ponte ideale.
La fase di costruzione del processo relazionale con i rappresentanti Nativi americani Ramapough Lenape, così come la fase iniziale di Atla(s)now in Marocco, ha richiesto un’energia immensa e l’annullamento di ogni obiettivo programmato. In tali contesti si diventa ascoltatore, al tempo stesso eccitato e frustrato, scoprendo come le buone intenzioni e intuizioni non sono le stesse per tutti. La bulimia del fare, raccontare e denunciare, tipica della nostra cultura, si frantuma quando si è posti di fronte a una questione spiazzante: la possibilità di “vivere senza lasciare tracce”.
È possibile immaginare un’arte e un’esistenza che non lasci traccia di sé, e consegnare a chi verrà dopo di noi un terreno sempre vergine su cui di volta in volta costruire nuove esistenze? Forse lo è applicando il concetto di coesistenza con il mondo che ci contiene, tipico dei Lenape, e senza quell’antropocentrismo, proprio di molte culture basate sul potere e costruite a colpi di azioni e monumenti immensi, fantastici, che spesso per esistere hanno annullato ogni precedente traccia. Cercare di coesistere si rivela oggi una verità necessaria.
Proprio i Ramapough Lenni Lenape hanno subito la potenza e l’arroganza di una grande industria automobilistica, la Ford. Prima di chiudere, nel 1980, lo stabilimento Ford di Mawah sfornò sei milioni di veicoli e un oceano di agenti contaminanti, compresi residui di vernice in quantità sufficiente a riempire due dei tre passaggi del Lincoln Tunnel. Oggi nell’area vengono registrati casi di cancro incredibilmente numerosi e le falde acquifere sono pressoché inutilizzabili. Vicende simili si sono verificate e si ripetono ogni giorno e a ogni latitudine, anche nel nostro Paese.
La serie di dipinti a cui ho lavorato in questi ultimi otto mesi, oltre ad evocare gli antichi legami geologici e il loro incessante modificarsi, che rende fragile ogni idea di confine e identità personale, contengono tracce della terra di questo popolo, quella terra carica di morti taciute, di scorie da rimuovere. Dunque, decidere di far diventare la mostra una piattaforma di rappresentanza della tribù a New York, è stata una conseguenza inevitabile determinata dall’approfondimento dei miei rapporti con loro. Inoltre sarà realizzato un talk con i rappresentanti della comunità, e un workshop, i cui esiti verranno presentati in una serata evento nel mio studio di Brooklyn e nel centro Ramapough Lenape di Mawah.
Ogni dipinto è una montagna su cui individuare la via migliore, gli appigli più stabili, ma anche il pendio più veloce per scivolare via. Detto questo, prendo distanza da codici identificativi molto attraenti, non sono un artista nè sociale nè politico. Non credo che esista veramente un’arte sociale, ma un agire in modo socialmente coinvolto e responsabile in qualità di individuo. L’arte e la vita che ne derivano è più o meno il prodotto di questo procedere.
Lavorare su temi che tirano in ballo le comunità presuppone un’assunzione di grande responsabilità nei loro confronti, che richiede fatiche immense e non sempre conciliabili con la pratica artistica. Non deve e non può esaurirsi in eccellenti compiti documentativi e propagandistici del proprio status di artista “politico o sociale”; situazioni in cui gli attori principali, le comunità appunto, non compaiono mai con gli addetti ai lavori, non nei dettagliati resoconti sui network e tanto meno nel processo costruttivo. Troppo spesso (non sempre per fortuna) l’azione relazionale si esaurisce con l’assegnazione di un compito da far eseguire per soddisfare l’elite abituale. Poi, se anche solo aiutare una vecchina ad attraversare la strada, la si vuol far passare come azione artistica dotata di impatto sociale, allora si possono aprire approfondimenti immensi.
L’uso del medium è un mezzo e non il fine, ma sempre più spesso vedo esiti accademici e manieristicamente formali legati alla performance, al video e all’installazione. Pare che la pittura, per via di un lungo isolamento, abbia acquisito una libertà maggiore. Delego quindi principalmente alla pittura il compito di trasformare i dati che via via raccolgo. La sua carica immaginifica nasce quando non c’è nulla e non detta contenuti assoluti da scoprire in testi pretenziosi e infiniti. Origina da sensazioni e si lega agli occhi che trova, senza cercarli. Attraverso la pittura è difficile costruire quelle trappole emozionali per gli umori del momento di un pubblico addetto. È il fruitore occasionale o straordinario che può invece aprire un nuovo scenario nella melma del coalizionismo.
La natura non pone quei confini dei quali l’uomo necessita, ma realizza quell’interconnessione alla base della variabilità, costante fondamentale per ogni processo di arricchimento. Una nuova Pangea virtuale sta ridefinendo il mondo, e lo schermo diviene al tempo stesso membrana protettiva e confine individuale: un territorio protetto da dove esprimere le proprie verità, spesso inconciliabili con la fisicità delle vicende del mondo.
Angelo Bellobono
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