Catalogando assenze. Conversazione con Silvia Camporesi
Hermann Broch scriveva che l’architettura è la testimonianza dell'aspirazione dell'uomo a vincere il tempo innalzando l'ordine nello spazio. Parliamo con la fotografa forlivese Silvia Camporesi dei suoi nuovi progetti. Che, documentando l’ambizione umana di dominare l’ambiente, rivelano la decadente ecologia delle cose data dall’assenza dell’individuo.
In questi giorni è uscito Journey to Armenia – i Quaderni di gente di fotografia, un libro per immagini nel quale ripercorri e interpreti il viaggio compiuto dallo scrittore russo Osip Mandel’stam nel 1930. Architetture e paesaggi sono il fulcro prevalente di un racconto dove lo scarto, rispetto alla cronaca offerta dallo scrittore, è temporale. Potresti parlarci del progetto e del metodo con il quale ti sei approcciata a queste realtà (modifica, aggiunta o sottrazione di elementi, mutazione delle proporzioni di soggetto e sfondo), considerandone la dinamica temporale?
Il progetto è nato in collaborazione con la Galleria Photographica fine art di Lugano. Nel 2011 sono stata un mese a Venezia per realizzare le immagini de La Terza Venezia per una mostra e la pubblicazione di un libro. A distanza di due anni, con la stessa galleria, abbiamo deciso di scegliere un luogo che fosse meno noto della città di Venezia, così di comune accordo abbiamo pensato all’Armenia, una terra non distante a livello geografico, ma piuttosto sconosciuta e poco fotografata. La dinamica è stata la stessa: un mese di soggiorno, la mostra e il libro. Realizzare le immagini che compongono Journey to Armenia non è stato semplice: i paesaggi, i monasteri, le città sono bellissimi, ma in generale l’Armenia è una nazione impervia, dai colori caldi, molto soleggiata, quindi disallineata rispetto alle tonalità e ai colori che normalmente cerco. Il grande lavoro è stato quindi nella post-produzione, fase in cui ho modificato le tonalità e le luci al fine di ottenere immagini esteticamente vicine al mio immaginario. Ripercorrendo le tappe del famoso viaggio di Maendel’stam ho proposto una versione dell’Armenia surreale e immaginifica.
Attualmente stai sviluppando per privati un progetto nei comuni abbandonati di Italia, restituendone ancora una volta una pubblicazione-catalogo che sarà, se vogliamo, una mappatura di volumi urbani e rurali che rappresentano delle periferie di vita. Potresti fare degli accenni anche a questo progetto?
Dallo scorso anno mi sto dedicando in maniera costante e assidua a viaggiare per le regioni italiane al fine di realizzare una mappatura dei paesi abbandonati dell’Italia. Il progetto è finanziato da una cordata di quindici collezionisti, animati dall’idea di prendere parte alla creazione di un lavoro artistico. A fine progetto le immagini saranno pubblicate in un volume edito da Corraini. L’idea è di cogliere questi luoghi fragili in un momento particolare della loro esistenza. Un paese abbandonato è un’entità destinata a mutare in un breve lasso di tempo, evoluzione che porta verso un crollo definitivo o una riqualificazione degli spazi. Fotografarli in un particolare momento della loro esistenza è come congelarli in quello spazio-tempo.
Renzo Piano parla di “rammendo” delle periferie per le città del futuro. Qual è la tua visione di reimpiego dei luoghi per queste realtà? Qual è il tuo rapporto con il fare esperienza di paesaggi abbandonati?
In questi luoghi sento e vedo la storia delle persone che li hanno abitati. A volte capita di entrare nelle case e trovare stanze ancora parzialmente arredate, come se gli inquilini se ne fossero andati all’improvviso. Questi luoghi hanno perso la loro funzione, i muri sono sbrecciati, le porte delle case aperte, la natura fa il suo ingresso fra le crepe e tutto è scolorito. C’è una bellezza inquieta che domina in questi luoghi, un fascino fortissimo che mi spinge a cercarne sempre di nuovi. Non ho un pensiero rispetto al reimpiego di questi luoghi, piuttosto cerco sempre di capire come sia successo che piana piano uno dopo l’altro gli abitanti se ne siano andati, fino ad arrivare al totale abbandono.
Il tempo passa e il mezzo fotografico immortala questa stasi. Cerchi di preservare le tracce di bellezza presenti nel passato oppure che valore ha l’assenza?
L’inquieta bellezza di questi luoghi è indubitabile. Siamo abituati a fare chilometri per visitare siti evidentemente noti, ma è raro muoversi per cercare posti abbandonati. In queste tracce di passato risiede un’evidente bellezza, una malia che attrae, fortissima nel rapporto fra presenza (di ciò che resta dei paesi) e assenza (dei loro abitanti). Ho scelto di stampare le fotografie in bianco e nero e poi di colorarle a mano, seguendo un vecchio procedimento della storia della fotografia. Questa tecnica ha un valore estetico, ma è una scelta di tipo concettuale, perché colorare a mano queste immagini significa dedicare tempo ai luoghi che essere rappresentano, significa in qualche modo rianimarli.
Nei tuoi progetti ti dedichi spesso al libro d’artista. Che valore ha questa tipologia nella tua produzione culturale?
Il libro d’artista è solitamente un punto d’arrivo di una parte dei miei progetti. Pensare a un’opera sotto forma di libro è sempre un esercizio che mi prende dal punto di vista tecnico e concettuale ed è un modo, diverso dal solito, di riflettere su un’opera. Ho messo a punto varie tipologie di libri d’artista, dai libri con intervento kirigami ai libretti che contengono immagini stampate in casa e testi sui progetti che ho in mente. È un modo artistico di “appoggiare” su carta un lavoro.
Giangavino Pazzola
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